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lunedì 19 agosto 2013

QUANDO TUTTO EBBE INIZIO - Capitolo V - di Matteo Palmerini

Era circa l’una e l'incontro doveva avvenire la sera ad un'ora imprecisata ma credevo che se avessi fatto una sortita in quel momento avrei potuto giocare la carta sorpresa. Di nuovo, come era già capitato nei giorni precedenti tutto rallentò ed i pensieri iniziarono ad affollarsi nella testa: che cosa fai? Vuoi macchiarti le mani di un vero crimine? Cosa credi di ottenere facendo ciò? Tutte queste domande mi annebbiarono la mente e per alcuni minuti mi trattennero dal fare quell'azione oscena che avevo deciso di portare a termine. Ma alla fine, come sempre in quei giorni, tornò il ricordo di quell'uomo e questa volta ebbe l'effetto contrario: sortì in me una rabbia tale che tutte le domande precedenti sparirono e tacquero per sempre senza più riapparire nella testa.
Poggiai le armi sul tavolo e mi diressi verso uno dei computer della sicurezza dove cercai qualcosa di utile per me: le mani correvano veloci sulla tastiera e nonostante avessi la mente altrove riuscii ad entrare negli archivi privati del proprietario di quella villa. Spulciai bene tutti dati contenuti li dentro fin quando arrivai alle mappe catastali e alle piantine della villa di residenza. Mi guardai un momento intorno e notai che non c’erano stampanti in quella stanza quindi dovetti inviare le immagini sul mio smartphone per poterle portare fuori da quel luogo. Fatto ciò manomisi tutti i computer presenti dando loro un colpo sulla scheda madre nelle vicinanze del processore. Poi smontai gli hard disk e li presi con me. Da quel momento avevo un sacco di informazioni su quell’uomo e potevo anche farlo finire dritto in galera se le avessi consegnate alla polizia.
Non era un sempliciotto, in nessuno di quei computer era riportato un nome o un codice, nulla che potesse far risalire alla sua persona ma una cosa era certa: aveva le mani sporche di sangue ed era invischiato nella criminalità di quella città; la mia città. Anzi, era un boss della criminalità.

Mi resi conto a quel punto che l’affare era molto grosso e che sarei andato ad immischiarmi in qualcosa che mi avrebbe potuto uccidere quella sera stessa o più avanti nel tempo. Ma c'era un sentore che continuava a mantenermi saldo nella mia decisione: il pensiero di quell'uomo, del quale non sapevo nemmeno il nome, non faceva altro che alimentare la mia rabbia e la voglia di vendetta; il sentimento che provavo era quasi innaturale, qualcosa che prima di allora non avevo mai avvertito.
Dopo questi pensieri presi tutti gli oggetti che avevo scelto e uscii da quella stanza accorgendomi che ci ero rimasto per una sacco di tempo. Fuori, infatti, il sole stava scendendo all’orizzonte e dalle finestre si poteva intravedere un bellissimo tramonto rosso «Chissà se sarà l’ultimo che vedrò».
Presi le chiavi della macchina e lasciai definitivamente la dimora che probabilmente sarebbe stata il punto di partenza di qualcosa di nuovo o l’inizio della mia fine.
Lasciai tutti gli oggetti sul porticato e andai a prendere la macchina con la quale entrai nel cancello e percorsi il viale brecciato. Caricai tutto nel portabagagli e mi avviai verso il luogo dell’incontro che rispetto a dove mi trovavo era abbastanza lontano e ci voleva circa un’ora per raggiungerlo con la macchina.
La notte scese in fretta ed io giunsi finalmente al punto d’arrivo: parcheggiai la macchina lontano dalle mura del giardino che circondava la casa. Lasciai li dentro solo i tre hard disk che contenevano tutti i dati utili per incastrare l’uomo.
Mi fermai lungo la strada, vicino ad un albero e lì presi il mio smartphone e iniziai a controllare la mappa della casa: la osservai per quasi dieci minuti cercando di capire da dove poter fare irruzione e soprattutto dove poter essere non visto dalle telecamere.
Alla fine presi la mia decisione e mi avviai verso un angolo buio del muro dove, secondo la mappa, non c’erano telecamere. Misi il fodero del gladio a tracolla, quello dello spadino al fianco, la pistola in cinta dietro la schiena e i caricatori nelle tasche del jeans.
Arrivato al muro mi arrampicai sfruttando i mattoni e i rampicanti che si erano fatti strada su di esso. Salii in cima e mi guardai un momento intorno: tra me e la porta d’ingresso c’erano circa venti metri in linea d’aria e solo due guardie armate si frapponevano. La prima passò proprio sotto di me durante il suo giro di ronda, attesi il momento più opportuno quindi mi buttai giù cadendo con le gambe su di esso. Flessi le ginocchia e le feci impattare contro la sua schiena prima di cadere a terra. Con un gesto repentino mi rialzai prima di lui e gli misi un braccio intorno al collo per portarlo allo svenimento da soffocamento. L’uomo si dimenò in tutte le maniere arrivando anche a colpirmi al volto. Alla fine, tuttavia, svenne. Iniziai a sudare: sudavo per il caldo e per i movimenti che stavo facendo e sudavo freddo per le azioni che stavo compiendo; azioni che mi erano state insegnate al corso di arti marziali e che avevo giurato di non usare se non per autodifesa.
Trasportai il corpo svenuto dell’uomo dietro ad un cespuglio e poi rimasi acquattato tra l’erba alta dato che avevo sentito avvicinarsi una voce «Chi c’è? Massimo, tutto bene?». Non feci nessun movimento e lasciai che l’uomo si avvicinasse a controllare cosa stesse succedendo, quindi quando notò il cespuglio smosso e accese la torcia per vedere cosa ci fosse mi mossi all’improvviso e con un pugno colpii la parte posteriore del suo ginocchio tanto da fargli perdere l’equilibrio. A quel punto mi alzai e lo afferrai al collo con il braccio destro facendogli fare la stessa fine del collega. Sudavo così tanto che lasciai un grosso alone sulla giacca dell’uomo.
Mi abbassai, presi la sua torcia, la misi in tasca e corsi verso la porta d’ingresso controllando che nessun altro potesse vedermi. A quel punto sapendo dove erano le telecamere e cosa inquadravano, le aggirai e le spensi definitivamente colpendole con dei sassi.
Sapevo che quella cosa avrebbe attirato altri uomini li dove mi trovavo, così abbandonai il luogo e andai verso una porta che consentiva l’accesso al retro della casa. Anche li c’era una telecamera di sorveglianza ma quella era più semplice da disattivare: infatti mi arrampicai su un bidone dell’immondizia posto al fianco della porta e riuscii ad arrivare alla telecamera dalla quale staccai il cavo di alimentazione.

Ridiscesi dal bidone ed entrai nella casa, la porta non era stata chiusa a chiave dato che le guardie facevano dentro e fuori da li. Dovevo fare in fretta, così entrai e controllai se alla porta era attaccata la chiave. La fortuna volgeva verso di me, così chiusi la porta e feci fare un paio di giri alla chiave: nessuno sarebbe potuto entrare da li e solo io ne sarei uscito.
Mi lasciai la porta alle spalle e percorsi il corridoio che si mostrava dinanzi a me: era tappezzato d quadri (probabilmente riproduzioni) e ogni due metri c’era una statuetta su un piedistallo, probabilmente una statuetta raffigurante una delle divinità dell’antichità.
Il corridoio finiva con tre porte poste a sinistra, a destra e al centro. Erano tre porte identiche, di legno ben rifinito e con i manici d’oro. Le raggiunsi e poi, acquattandomi al muro ripresi lo smartphone e guardai nuovamente la piantina della casa: la porta a destra mi avrebbe condotto verso un bagno,  quella al centro verso una sala da pranzo e quella a sinistra verso uno studio. Il bagno non era utile, la sala da pranzo era troppo grande e sicuramente  messa in sicurezza con qualche telecamera, quindi optai per entrare nell’ufficio e vedere se il mio obiettivo fosse li. Mi avvicinai alla porta e poggiando le spalle al muro allungai il braccio sinistro verso il manico che abbassai. La spinsi e affacciai lo sguardo verso l’interno, quindi presi la torcia nella tasca sinistra ed illuminai. Era tutto buio e davanti a me si trovava una scrivania molto ordinata sulla quale si potevano vedere diversi taglia carte pregiatissimi. Dietro questa c’era una grossa sedia di pelle e ancora più giù si ergeva una grande libreria piena di tomi, libri e testi di ogni genere.
Continuai ad osservare cercando di capire se in quel luogo avessi potuto trovare qualcosa di utile ma subito mi accorsi che così non era. Feci per girarmi quando sentii dei rumori di passi che provenivano dalla sala da pranzo e si dirigevano verso il corridoio. Con un gesto repentino accostai la porta alla chiusura e con molta delicatezza la chiusi. Mi avvicinai alla scrivania, mi abbassai e appoggiando le spalle (e quindi il gladio) a quest’ultima, mi nascosi li dietro. Sentii aprire la porta che collegava il corridoio e la sala da pranzo, un paio di passi e poi di nuovo la porta, ma questa volta la stava chiudendo. Qualcuno era nel corridoio e avevo un trentatré percento di possibilità che entrasse nella stanza dove mi ero rifugiato. Trattenni il respiro in modo da sentire quale fosse la prossima mossa di quell’uomo. I passi si allontanarono verso il bagno, poi tornarono e di nuovo uscirono dal corridoio corsero di nuovo nella sala da pranzo. Dopo poco non li sentii più e decisi di alzarmi ed uscire in fretta da quella stanza: ormai sapevano che ero li, chi fossi e, probabilmente, anche cosa volessi, ma ancora non riuscivano a trovarmi. Dovevo arrivare il prima possibile al mio obiettivo, sistemarlo una volta per tutte e fuggire da li il prima possibile.

Uscii da lì ed entrai nella sala da pranzo. Un rapido sguardo ai quattro angoli del soffitto per cercare possibili telecamere e poi una velocissima corsa verso la porta che vedevo dall’altro lato della stanza. Al centro dell’enorme sala c’era un gigantesco tavolo che avrebbe potuto ospitare quindici persone, non era apparecchiato ma era estremamente pulito. Sulla parete sinistra della stanza c’era un lunghissimo quadro raffigurante alcune delle più importanti opere del rinascimento italiano. Sulla destra, due enormi finestre mostravano il giardino fiorito a quella bellissima sala da pranzo.
Giunsi all’altra porta ed uscii dalla stanza trovandomi nell’ingresso dove ebbi quello scambio di parole con il “tedesco”. Non c’era nessuno ma dovevo fare in fretta, dovevo arrivare al mio obiettivo. Ma dov’era? Dove lo avrei potuto trovare? Ripresi in mano il mio smartphone e controllai nuovamente la piantina della casa per vedere se c’era qualche stanza più importante al piano superiore. Sfogliai quella mappa per ben cinque minuti ma poi mi venne la folgorazione: se avevamo un appuntamento e l’unico luogo in cui ci eravamo visti nella casa era la stanza dove ho alloggiato io, forse il mio obiettivo era li. Stando attento a non farmi vedere decisi di tornarci.
Feci il percorso contrario a quello che avevo fatto la mattina e finalmente giunsi quasi nei pressi della porta che conduceva a quello scantinato. Stavo per girare l’angolo quando udii un paio di voci. Mi bloccai all’improvviso e mi acquattai contro il muro. Due uomini stavano piantonando la porta ed erano entrambi armati di mitra.
La situazione si stava mettendo male, sicuramente sapevano che ero li e alcuni uomini mi stavano cercando, quindi non avevo molto tempo, dovevo escogitare qualcosa.
Mi trovavo in un corridoio a “L” e l’unica uscita era possibile attraverso la porta alle mie spalle dalla quale ero appena entrato. Mi guardai intorno in cerca di qualcosa che potesse darmi una mano ma, quasi in preda al panico, non riuscii a vedere nulla e a concentrarmi. Lo sguardo correva freneticamente da destra a sinistra e non si fermava mai per troppo tempo ad osservare. Tutto questo fin quando l’occhio cadde su una scatoletta elettrica posta nel muro. Era proprio vicino a me non ci misi molto a raggiungerla senza far alcun rumore. La scatoletta era di plastica morbida attaccata al muro con quattro viti piccole. Non mi rimaneva altra scelta, dovevo usare la spada per estrarla e tagliare i cavi: fortunatamente entrambe le armi bianche che avevo con me erano dotate di una copertura di gomma intorno al manico.
Ciò che stavo per compiere doveva avvenire in pochissimi secondi dato che l’estrazione della scatola dal muro avrebbe procurato molto rumore.
Mi guardai un momento intorno, poi infilai con forza la spada tra il muro e la scatoletta, quindi, dopo un lungo sospiro, feci un movimento repentino tirando la spada verso di me. Le viti superiori si staccarono facendo un gran rumore mentre quelle inferiori rimasero serrate al muro. La scatoletta si spezzò e fece un gran fracasso. Dopo ciò rimasi un momento fermo e trattenni il fiato cercando di capire se le due guardie della porta avessero sentito i rumori. E da come parlavano, pareva proprio di si. «Merda! Merda! Merda!» dissi a bassa voce mentre infilavo nuovamente la spada nella scatoletta e notando i cavi all’interno la usai per tagliarli tutti di netto: erano sei cavetti elettrici uniti da un’unica fascetta di plastica. A quel punto feci pressione con la spada su quella e con un taglio netto tranciai tutti i cavetti.
A quanto pareva la fortuna non era dalla mia parte in quel momento, infatti le luci del corridoio si spensero solo  lungo il tratto che avevo già percorso e dove mi trovavo in quel momento; davanti la porta che i due uomini piantonavano c’era ancora la luce, probabilmente controllata da un altro allaccio elettrico.
Diedi un rapido sguardo intorno a me per vedere quale fosse il punto più buio del corridoio. Rinfoderai la spada, corsi verso quell’angolo e rimasi in piedi con le spalle al muro sperando di rimanere coperto dall’oscurità. Solo una flebile luce arrivava dall’altro braccio del corridoio e non riusciva ad illuminare tutto.
Rimasi fermo li attendendo i due uomini armati che non ci misero molto ad arrivare. Dopo un breve scambio di parole uno dei due tornò al posto suo mentre l’altro iniziò a camminare lungo il corridoio e da quel momento la fortuna iniziò a girare dalla mia parte: non aveva una torcia e l’illuminazione esterna non riusciva a fare luce all’interno.
Camminò lungo il corridoio cercando di guardare se ci fosse qualche finestra aperta o, addirittura, rotta, oppure se ci fossero tracce lasciate sul pavimento. Per sua sfortuna l’unica cosa che trovò, fu solo il pezzo rotto della scatoletta che giaceva sul pavimento. Quando lo vide si chinò per raccoglierlo e quello fu il momento in cui feci uno scatto dall’angolo buio, nel quale mi ero rifugiato, per dare un colpo dietro la nuca dell’uomo e farlo svenire sul colpo. Riuscii a colpirlo col pomo del gladio e riuscii anche a tenerlo senza farlo cadere a terra, anzi, lo adagiai pian piano al fine di non far rumore. Tornai nell’angolo buio in attesa che l’altro si accorgesse dell’imminente assenza del compagno e venisse a controllare: stoltamente non fece passare troppo tempo e si diresse verso il nostro corridoio.

L’azione fu la stessa se non fosse che riuscì a dare l’allarme agli altri uomini attraverso un walkie talkie prima ch’io lo mettessi k.o.
Non esitai più di un secondo e mi lanciai in corsa verso la porta che i due piantonavano ma questa volta arrivò tutta la mia sfortuna in una persona sola: mentre giungevo, la porta si aprì da sola e dinanzi a me si presentò il “tedesco”: una montagna di muscoli alta quasi due metri che mi sovrastava. Deglutii, feci mezzo passo indietro e alzai la guardia «Mi ero dimenticato di te. Maledizione» - «Ed io invece sono contento di sgranchirmi un po’ le braccia» 

lunedì 5 agosto 2013

QUANDO TUTTO EBBE INIZIO - Capitolo IV - di Matteo Palmerini

Mi lasciai il portone alle spalle e camminai lungo il viale di quell’enorme giardino circondato da una cinta muraria molto alta che culminava in un cancello mastodontico. Durante il tragitto che percorsi a testa bassa venni assalito dai primi dubbi: che stai facendo? Ti dai alla criminalità? Sei un killer, devi consegnarti alla giustizia. Tutte domande che mi rimbombavano nella testa ma che subito venivano zittite dal ricordo di quell’uomo che mi aveva salvato dal baratro della prigione.
Giunsi al cancello e tornai nel mondo reale, lo oltrepassai e vidi una macchina parcheggiata li davanti: era una Ford Fiesta ultimo modello. Salii in macchina e mi diressi verso il luogo dell’appuntamento dove avrei dovuto incontrare quel tale che si sarebbe presentato a me come “la guardia”.
Non ci volle molto, in venti minuti ero arrivato dinanzi al luogo ma, come mi era stato suggerito, non mi dovevo far vedere in giro, quindi rientrai in una via secondaria e parcheggiai l’automobile. Scesi, mi misi il cappuccio della t-shirt e mi avviai verso lo stabilimento balenare. Era una giornata molto calda di fine Luglio e alle nove del mattino si potevano già percepire circa trenta gradi nell’aria. Mentre camminavo iniziavano a tornarmi in mente quei dubbi che mi avevano assalito poco prima ma, di nuovo, il pensiero della persona che mi aveva salvato dalla galera faceva sparire tutto. Uno nuovo, però, cominciava a martellarmi più degli altri: da quel momento in poi come mi sarei guadagnato da vivere? Dovevo continuare a fare quei lavori per quell’uomo? Che cosa ne sarebbe stato del mio futuro? Tutte domande che non ebbero risposta e che zittii subito nella mia mente concentrandomi su ciò che dovevo fare di li a qualche istante. Ero infatti arrivato dinanzi all’entrata dello stabilimento balneare che era già strapieno di gente (essendo domenica mattina) intenta a bere caffè presso il bancone del bar, oppure a prendere gelati nel frigo o bibite fresche. Mi avvicinai ai videopoker che erano posti in un angolo solitario e li mi tolsi il cappuccio e aspettai l’arrivo di quell’uomo. Ancora non sapevo come avrebbe fatto a riconoscermi ma rimasi in silenzio  facendo finta di giocare. Circa dieci minuti dopo venni avvicinato da un uomo di media statura, un po’ grassoccio con un paio di Ray-Ban che coprivano ampiamente parte del suo volto. Mi affiancò e quando volsi lo sguardo verso di lui mi disse «Ho ciò che ti serve. Sono “la guardia”» non dissi nulla e allungai la mano per prendere la busta. Chiaramente il tutto avvenne lontano da occhi indiscreti. Infine mi fece un cenno del capo e voltandosi si allontanò dallo stabilimento.
Rimasi quasi interdetto ma alla fine misi la busta nella cinta e la coprii con la maglietta. Decisi allora di allontanarmi da li e mi incamminai verso la macchina per poi dirigermi all’indirizzo che l’uomo mi aveva segnalato.
Non ci misi molto tempo nel raggiungerlo e trovare posto per l’auto. Durante il viaggio continuai a pormi quelle domande che per quasi tutta la mattinata mi avevano martellato la testa ma, sempre, come ogni volta, non rispondevo e pensavo all’uomo che mi aveva salvato trovando un estasiante senso di pace e conforto. Scesi dall’auto e percorsi a piedi quel tratto di marciapiede che mi separava dal cancello della dimora. Arrivato li davanti mi soffermai un momento ad osservare ciò che si trovava all’interno: un viale si presentava subito a me ed era completamente circondato da cipressi alti e fitti e si infrangeva sulla scalinata di una villa costruita in stile coloniale. Presi dalla tasca dei miei jeans il mazzo di chiavi che mi era stato dato ed infilai quella giusta nella toppa del cancello. Aprii ed entrando notai che oltre quei cipressi c’era un enorme giardino fiorito circondato da un muro. Era sicuramente fatto di cemento armato ma era coperto da un rivestimento di pietre che lo facevano sembrare un vero e proprio muro di cinta medievale.
Raggiunsi la scalinata che metteva fine al viale brecciato e dava inizio al porticato di legno di quella casa magnifica. A quel punto la domanda mi sorse spontanea: per attendere la sera c’era bisogno di lasciarmi in dotazione tutta questa villa? E poi: se può permettersi di lasciare a me, perfetto sconosciuto, le chiavi di una casa del genere, quanti soldi ha?
Rimasi per un po’ ad osservare quel porticato sorretto da due colonne di marmo ben tenute e pulite e notai che il portone d’ingresso era veramente grande, tanto da poter far entrare un’auto di media grandezza.
Guardai il mazzo di chiavi che avevo in mano e scelsi la chiave che mi sembrava più appropriata per quel enorme portone ligneo. Lo aprii dopo circa quattro mandate ed entrando vidi un altro salone molto simile a quello visto nella villa precedente. Misi le chiavi in tasca, chiusi il portone e decisi di fare un giro della casa per conoscerla bene. Iniziai dal pianterreno visionando tutte le stanze che lo componevano: due enormi saloni di cui uno destinato per i pranzi e l’altro adibito a biblioteca con una vasta gamma di libri. Le altre stanze del piano erano: un ripostiglio, due cucine, un sottoscala che scendeva sotto terra e che ho visionato in un secondo momento, due bagni molto grandi e accoglienti, una veranda che si trovava oltre una porta posta sull’altro lato della casa e che aveva come sfondo un altro giardino grandissimo che si perdeva in un boschetto.
Oltre la scalinata, invece, si apriva un primo piano formato da un lungo corridoio sul quale si affacciavano diverse stanze: tre matrimoniali, tre singole e tre bagni. Tutte e sei le camere da letto erano molto grandi potendo ospitare anche più persone di quelle previste dai letti e i bagni erano tutti e tre provvisti di docce e vasche idromassaggio.
Erano le 11 di mattina e dopo quella visita al piano terra e al primo piano decisi di dare un’occhiata a quel sottoscala che scendeva sotto terra. Accesi le luci e discesi la scalinata che conduceva all’enorme cantina che si presentava come luogo utilizzato per depositare gli oggetti inusati. L’illuminazione mi concedeva di vedere tutti gli scatoloni ammassati uno sopra l’altro e nominati tutti quanti con un codice alfa numerico. In un angolo della stanza era riposto un tavolo da biliardo coperto da un telo di plastica che ne evitava l’usura. Tutto era ricoperto di polvere e dava a ben pensare che quel luogo fosse molto poco usato e che quegli oggetti fossero li da molto tempo. Diedi ancora un’occhiata fugace e poi decisi di tornare sopra per vedere se la dispensa avesse qualcosa da mangiare. Quando mi volsi per tornare alla scalinata, il mio braccio destro impattò con la busta che avevo ancora nella cinta del pantalone. A quel punto venni assalito dalla curiosità di sapere cosa ci fosse, una curiosità che avrebbe potuto uccidermi. Chiaramente ero molto combattuto e, anzi, nonostante il desiderio di sapere, volevo consegnare la busta a quell’uomo e tornare finalmente a casa mia. Decisi allora di prenderla e la osservai per un po’ cercando di capire cosa contenesse. Era una busta imbottita ma sembrava che dentro non ci fosse nulla di grande anzi, sembrava proprio che non ci fosse nulla. La curiosità continuò a crescere in me e fu così che decisi di provare a portare la busta sopra per avvicinarla a del vapore affinché la potessi aprire senza romperla e richiuderla senza che nessuno si accorgesse della manomissione. La rimisi in cinta e volgendomi per dare un’ultima occhiata a quello scantinato notai una scatoletta attaccata al muro vicino ad uno scaffale di metallo pieno di scatoloni. Rimasi un attimo interdetto ad osservare da lontano ma alla fine mi avvicinai per capire cosa fosse: notai subito la luce blu che emanava dallo schermo centrale e ad un primo sguardo sembrava un termostato touch screen ma man mano che mi avvicinavo vedevo sempre meglio i numeri sovrapposti sullo schermo che sembravano stare li per aprire qualcosa. Era tempo di capire dove veramente mi trovassi ed iniziai a guardarmi intorno per vedere se ci fossero porte che potessero essere aperte tramite quella sottospecie di scatoletta elettronica. Vagai per un po’ all’interno di quella cantina ma non riuscii a vedere nessuna porta, l’unica era quella che conduceva alla scalinata che mi avrebbe riportato al piano terra. Decisi allora di controllare se potesse trovarsi ai piani superiori ma prima di andarmene volevo memorizzare bene come era fatto quello schermo touch screen per capire, poi, come avrei fatto per manometterlo e trovare il codice d’accesso giusto. Mi avvicinai per guardarlo bene e capire se ci fosse qualche punto dal quale aprirlo e notai un marchio di fabbrica molto conosciuto: era il marchio della ditta per cui lavoravo.
Quello era un sistema di sicurezza installato da una ditta di vigilanza che aveva le schede integrate in silicio prodotte dall’azienda per cui lavoravo. Mi scappò un piccolo sorriso e mi allontanai da li per vedere se ci fosse un cacciavite o qualcosa di similare. Trovai una piccola cassettina piena di attrezzi da lavoro: cacciaviti, avvitatori, chiavi inglesi, chiodi, un martello ed altra roba. Presi un piccolo cacciavite con punta piatta ed uno con punta a stella.
Con il cacciavite a stella tolsi le viti e con quello piatto estrassi la scatoletta dal supporto installato sul muro. La prima cosa che vidi fu una scheda madre collegata tra lo schermo e il resto del sistema d'allarme: avendone programmate ed installate molte in passato, sapevo come disattivarle e lasciare che tutto il sistema di sicurezza che controllavano crollasse, spegnendo telecamere, scansioni infrarossi e lasciando aprire tutte le porte controllate elettronicamente. Staccai il cavo di alimentazione, manomisi i cavetti di collegamento tra la scheda madre e il resto del sistema e in pochi minuti il gioco era fatto. Altro non aggiungo per non spiegare come manomettere un sistema di sicurezza sofisticato come quello. Non voglio che altri sappiano queste cose.
Finito il lavoro, rimontai lo schermo al posto suo e richiusi la scatola. Proprio in quel momento sentii un forte rumore provenire dal piano immediatamente superiore. Rimisi i cacciaviti al loro posto e tornai di sopra dove, dopo una breve ricerca nelle varie stanze, notai che nella biblioteca si era mosso uno scaffale che aveva lasciato aperto uno spazio.
Senza pensarci due volte percorsi il corridoio che si presentava davanti a me e giunsi dinanzi ad una porta aperta ma non spalancata, appoggiata all'uscio. Guardai all'interno prima di aprire completamente e notai una stanza altamente sofisticata piena di gioiellini tecnologici: monitor dai quali si poteva vedere ciò che riprendevano le telecamere di sicurezza, computer che tenevano sotto controllo gli scanner ad infrarossi ed ultima, ma non per importanza, un'altra grande vetrata che custodiva una lunga serie di armi da fuoco e armi bianche. Erano molto simili a quelle che avevo visto nell'altra villa ma erano in quantità molto maggiori. Notai anche che su un tavolo era tenuto uno scanner infrarossi piccolo, sembrava un semplicissimo microscopio ma a causa del suo puntatore laser si poteva facilmente distinguere da quest’ultimo. Rimasi un attimo ad osservarlo e in quel momento mi venne l'idea geniale: potevo passare sotto la busta sotto il laser e scoprire cosa contenesse. Non ci pensai su troppo e prendendola da sotto la T-shirt mi sedetti sullo sgabello, mi avvicinai allo scanner e lo accesi. La posai sotto la lente e la vidi riprodotta nello schermo che avevo dinanzi a me, quindi feci partire il laser che in pochi secondi la scansionò tutta e diede un risultato sul monitor: all'interno era contenuto un foglio di carta. Su tale foglio era scritto qualcosa, forse una lettera ma le uniche parole che il laser riuscì a decifrare furono: come da lei ordinato l'appartamento è completamente ripulito e i corpi delle due vittime sono stati fatti sparire. Il piano è ben riuscito, ora tocca a lei pensare al ragazzo.

Lo stupore fu inimmaginabile e dopo un momento di incredulità, le vene delle tempie iniziarono a pulsare e la rabbia cominciò a ribollire dentro di me. Senza accorgermene, avevo stretto talmente i pugni che le vene della mano si erano gonfiate. Iniziai a respirare quasi affannosamente mentre il pensiero di quell’uomo si faceva sempre più nitido dentro di me e la voglia di metterlo a tacere una volta per tutte cresceva sempre più.
In preda alla rabbia mi alzai dallo sgabello, lo afferrai per un piede e lo scagliai con forza verso la vetrata che conteneva le armi. Come è facile immaginare tutto andò in frantumi.

Non avevo mai sparato in vita mia ma sapevo ben maneggiare una spada o due. Quindi le presi entrambi con lama corta (una delle due era un gladio di pregevolissima fattura) e portandole via da li con i loro foderi dissi a me stesso che era giunto il momento di farla pagare a quel bastardo. Come ho appena detto, non avevo mai sparato in vita mia ma una pistola la presi comunque.

lunedì 29 luglio 2013

QUANDO TUTTO EBBE INIZIO - Capitolo III - di Matteo Palmerini


Alcuni secondi dopo la luce tornò ed io, ancora seduto sulla sedia, ero slegato e le corde tagliate erano ai miei piedi. Alzai lo sguardo e vidi di nuovo la mia persecuzione.
Impaurito feci un balzo indietro e mi misi in piedi. In quel momento vidi cosa realmente era successo: il “come” non lo sapevo, il “quando” non riuscivo a capirlo ma sul pavimento di casa mia giacevano distesi due uomini incappucciati con le rispettive gole tagliate e il sangue che vagava tra una mattonella e l’altra.
Mi ghiacciai, alzai lentamente lo sguardo verso il possibile autore di quel massacro e lo fissai dritto negli occhi «che cosa hai fatto? Sei stato tu a fare questo massacro in casa mia?».
Non arrivò subito una risposta ma, scrutandomi prima e sorridendo poi, il mio peggiore incubo decise di rispondere «come puoi vedere non ti è più possibile restare in casa tua altrimenti la scientifica si accorgerà di cosa hai fatto!»  non capivo cosa volesse dire ma quando finì di parlare abbassò lo sguardo sulla mia mano ed io lo seguii col mio. Iniziarono a venirmi le vertigini, quasi non sembrava reale: avevo in mano il coltello della mia cucina che ancora gocciolava di sangue.
Le gambe tremavano, mi stavano per uscire le lacrime e mi sentivo molto accaldato ma in un momento di lucidità rialzai lo sguardo verso il mio interlocutore «Come è possibile?». Gli occhi si erano gonfiati ma lui non si scomponeva, anzi, fece spallucce e con un ghigno dipinto in volto rispose «semplice, sei un assassino. E’ giunto il momento che tu ti veda per quello che sei veramente». Vacillai non riuscendo a capire come tutto ciò fu possibile: in primis non ero un assassino ed in secundis io non avrei potuto fare quelle cose mentre ero legato e in così poco tempo.
«Vieni con me, ti porto al sicuro e nessuno saprà cosa è successo. Ho un paio di uomini qui intorno che verranno a ripulire la casa prima che arrivi la polizia» mi porse la mano e mi sorrise.
Avevo paura, davvero tanta paura, soprattutto non volevo finire in galera. Afferrai la sua mano e la strinsi come se stessi sugellando un accordo con lui, inspirai tirando su col naso «d’accordo, andiamocene. Ma devi garantirmi che questi due spariranno per sempre» dissi quest’ultima frase stringendo ancora di più la mano del mio interlocutore. Tanta era la tensione che non mi ero accorto del guanto che quell’uomo indossava in piena estate. Lui annuì e mi fece strada fuori dal mio appartamento, giù per le scale del mio palazzo e fuori in strada verso una macchina scura, una Volkswagen Golf GT. Entrai e mettendo la cintura seguii con lo sguardo l’uomo che nei giorni precedenti mi aveva perseguitato, ma che in quel momento mi stava aiutando. Prese in mano il cellulare e lo sentii dire qualcosa ma non riuscii a capire cosa. Poco dopo salì in macchinapotuto  e ci allontanammo. Non passò molto tempo ch’io chiusi gli occhi e scesi in un sonno profondo.
«Che ne dici di svegliarti?» una voce ovattata mi stava parlando ma il sonno era ancora pesante.
«Forza, alzati, sono quattro ore che dormi» continuò divenendo sempre più nitida.
«Ma che ore sono?» dissi alzando la testa.
«E’ l’una e trenta di notte» rispose ancora quella voce che non riuscivo ad identificare a causa del buio.
«Dove diavolo sono?» chiesi ancora una volta mentre mi sedevo. Non ricevetti risposta ma si accese la luce di una abatjour che mi mostrò parte del luogo.
Ero disteso su un divano di pelle che si trovava al centro di una stanza di legno, sotto il divano c’era un tappeto molto grande che sicuramente era stato acquistato da qualche venditore persiano, alle pareti erano appese le teste di un orso, un grosso cervo e un lupo e alla mia destra, nel muro, era incastonato un enorme camino che chiaramente era spento in quel momento. C’erano delle piccole finestrelle nelle parti alte delle pareti e una grande scalinata che dalle mie spalle saliva e si perdeva nel buio.
«Benvenuto nella mia umile dimora» disse l’uomo allontanandosi in quel momento dalla abatjour. Lentamente portai la mano dietro la nuca e mi toccai il bozzo formatosi a causa di quel brutto colpo subìto davanti il portone di casa mia.
Era strano, mi ero svegliato con quel senso di angoscia che generalmente segue una tua azione cattiva che hai omesso ad altri: il senso di colpa. Eppure mi sentivo a mio agio e tranquillo quando quella persona era vicina a me: il suo corpo, il suo sguardo ma soprattutto i suoi occhi, emanavano un’aura di calma e relax che lo facevano apparire come un amico fedele che avrebbe dato la vita per te.
Mi sedetti per bene, alzai lo sguardo verso di lui e feci quella domanda a cui non ebbi risposta tempo addietro «ma tu, chi sei? E perché mi hai aiutato?».
Prese una bottiglia di vino senza etichetta e se ne versò un poco in un calice, quindi si avvicinò al divano e si sedette affianco a me «come chi sono? Sono il tuo benefattore. Quello che ha impedito che tu finissi dietro le sbarre!» disse con tono ironico e poi bevve un sorso di quel vino che sembrava più un mosto liquoroso. Era di un rosso molto acceso e il liquido era molto denso. «E di questo te ne sono grato. Ma chi sei? Come ti chiami? Da dove vieni?» ancora una volta porsi una serie di domande a catena, soprattutto ero curioso di sapere la risposta dell’ultima. Iniziavo solo ora ad accorgermi veramente di quanto fosse chiara la sua pelle nonostante fossimo in piena estate, quindi volevo sapere se era albino o provenisse da qualche paese nordico.
Il colore della pelle, però, non collimava con i tratti del volto che lo facevano apparire come un uomo mediterraneo.
Si alzò col calice in mano e scosse la testa «a tempo debito tutte le risposte arriveranno. Ora…» stava per dire qualcosa ma venne interrotto dall’arrivo di un uomo che percorse la scalinata e ci raggiunse in sala «Signore, come avevate ordinato: tutto sistemato». Era un soggetto alto e muscoloso, aveva la pelle e i capelli molto chiari e, se avessi dovuto rispondere ad una domanda sulla sua provenienza mi sarei buttato ciecamente su una risposta sola: tedesco. Nonostante ciò, la cosa che più risaltava all’occhio erano le sue braccia: aveva dei bicipiti enormi e non scherzo se affermo che erano grandi quanto il mio cranio. Così il padrone di casa annuì e con un gesto della mano lo congedò. L’omone tedesco allora chinò il capo e poi lasciò la stanza.
«Dicevo…» riprese il mio interlocutore.
«Chi è quell’uomo?» lo interruppi velocemente con questa domanda.
«E’ uno degli uomini che lavorano per me e proteggono la mia casa. Sai, quando girano molti soldi per le tue tasche, c’è molta gente che te li vuole portare via e così hai bisogno di qualcuno che ti protegga» mi dava le spalle e teneva lo sguardo fisso sulla testa di orso che aveva appesa in quel salone.
«Dicevo» continuò ancora una volta «ora che sei qui, che ti ho salvato dal baratro in cui saresti finito, veniamo a noi, a ciò che ora tu devi fare per me» nel dire le ultime parole si volse e mi guardò dritto negli occhi. «Fare? Fare per te?» chiesi con tono molto preoccupato «io dovrei fare qualcosa per te?» continuai ancora a fare domande non riuscendo a trattenere la grossa preoccupazione. «Ragazzo, la vita è un Do ut Des, io dò affinché tu dia. Ed avendo io ampiamente dato, adesso tocca a te dare qualcosa» la risposta mi suonava molto minatoria ma il tono di voce era molto tranquillo e mi metteva a mio agio, così non potei fare altro che chiedere «quindi cosa dovrei fare per te?». L’uomo si avvicinò, prese una sedia, la pose col dorso innanzi a me e vi si sedette appoggiando gli avambracci sullo schienale «Domani mattina dovrai andare in questo stabilimento balneare» mentre parlava mi stava mostrando la foto di uno stabilimento della città «e incontrare un uomo che si presenterà a te come “la guardia”» fece una piccola pausa spostando lo sguardo da me alla foto «quest’uomo ti consegnerà una busta chiusa ermeticamente che tu dovrai tenere con te fino a domani sera». Inarcai il sopracciglio e chiesi «perché fino a domani sera?» - «perché solo allora io e te ci incontreremo nuovamente». Mi diede un mazzo di chiavi e un bigliettino sul quale era scritto un indirizzo «appena avrai la lettera va a questo indirizzo e restaci fino a sera e tieni a mente una cosa ragazzo mio: non puoi farti vedere in giro». Non capii cosa volesse intendere e socchiusi gli occhi «che vuoi dire? Perché non posso farmi vedere in giro adesso?» - «Beh, dopo quello che è accaduto ieri in casa tua è meglio se sparisci per un po’ dalla circolazione, non trovi?» capii in quel momento cosa volesse intendere e mi lasciai andare un momento «Ho capito. Va bene, farò ciò che mi hai chiesto. In fin dei conti non mi sembra un lavoro difficile, a parte il non potermi far vedere in giro». L’uomo si alzò dalla sedia sorridendo, la ripose dov’era e si avvicinò a me poggiandomi una mano sulla spalla «sono sicuro che ce la farai». Detto ciò si allontanò avviandosi verso la scalinata «e dove starò questa notte?»  chiesi un po’ preoccupato «resta pure qui, sarai al sicuro». Con queste parole l’uomo lasciò la stanza e dopo il rumore dei suoi passi si sentì solo quello di una porta chiusa lentamente.
Ci si chiederà: era quello il momento buono per scappare? In effetti, se avessi voluto, quello sarebbe stato un ottimo momento ma qualcosa mi faceva sentire a mio agio in quella stanza, qualcosa aleggiava nell’aria e mi rendeva calmo, non volevo andare via, anzi ero molto intenzionato a portare a termine quel compito affidatomi per il giorno successivo.
Mi alzai dal divano perché volevo vedere meglio la stanza con la luce del lampadario e non con quella della abatjour; così la accesi. Ora, ai miei occhi si presentava una stanza ancor più grande di quella che riuscivo a vedere prima e la cosa che mi colpì più di tutte era una parete che precedentemente non scorsi a causa della poca luce. Su quel muro erano appese una quantità incredibile di armi da fuoco e armi bianche. Era rivestita da un vetro molto spesso che le proteggeva. Non mi avvicinai più di tanto ma le osservai con cura notando quanto fossero ben tenute e pulite, soprattutto le armi bianche che luccicavano al riflesso della luce.
Poco dopo scostai lo sguardo e cercai altro nella stanza ma oltre a notare nuovamente che fosse più grande di quella che credevo vidi solo una porta posta sotto la scalinata. Mi avvicinai e la aprii lentamente, era tutto buio ma si scorgeva un piccolo corridoio che conduceva ad un'altra soglia. Coprii quel paio di metri, la raggiunsi e la varcai. Quando accesi la luce, una stanza da letto si mostrò ai miei occhi: un letto matrimoniale si trovava con la testa contro la parete che si profilava dinanzi a me, ai suoi fianchi erano posti due comodini. Sulla parete di destra c’era un lungo comò che veniva sovrastato da uno specchio molto grande, mentre sulla parete sinistra si trovava una porta scorrevole che conduceva ad un piccolo bagno. I muri erano spogli e non v’era traccia di finestre o altro.
Mi avvicinai al letto e notai che ai suoi piedi erano piegati dei vestiti ed una tuta con un bigliettino lasciato li: per la tua notte e per il tuo incontro di domani. Inarcai un attimo le sopracciglia ma non mi feci troppe domande sul “come” e sul “perché” di quelle cose; non riuscivo a farmele in quel momento. Così mi diressi in bagno, mi feci una doccia fresca che mi rilassò, mi misi la tuta e andai a dormire. Strano ma vero, la notte trascorse tranquilla e soprattutto senza incubi.
L’indomani mi svegliai di buon mattino e mi preparai in fretta per l’incontro al quale avrei dovuto prender parte. Presi i vestiti che mi erano stati preparati e li indossai: erano un jeans blu scuro e una t-shirt bianca senza maniche con un cappuccio. Una volta indossato il tutto, presi le chiavi che mi erano state date, imparai a memoria l’indirizzo che era sul biglietto e lasciai quelle stanze. Salii la scalinata, aprii la porta e vidi dinanzi a me l’enorme tedesco che mi fissava. «Buon giorno!» dissi un po’ intimorito da tutta quella possanza «vieni, ti mostro la strada per uscire» rispose con un tono di voce abbastanza sbrigativo. Percorremmo un paio di corridoi, un grosso salone ed infine giunsi nei pressi di un enorme portone di legno intarsiato. «Mamma mia, ma questa casa è enorme!» dissi con molta enfasi quando ne notai le vere fattezze. Ai lati della stanza c’erano due grandi porte che conducevano ad altrettante sale e sul fondo si trovavano due gigantesche scalinate che formavano un semicerchio dinanzi al portone principale. Il tedesco aprì e io feci per uscire ma mi fermò poggiandomi una mano sulla spalla: non sembrava stesse usando molta forza ma sentivo di non poter sfuggire a quella morsa; aveva una mano molto possente e molta forza nelle dita. «Segui il viale, oltrepassa il cancello e prendi la macchina che troverai parcheggiata li davanti. Non fare domande e non cercare risposte. Fa solo quello che ti è stato chiesto». Capii cosa intendesse ed in silenzio annuii. «Bravo ragazzo!» disse lui dandomi un piccolo colpetto dietro la spalla dove sentii tutto il peso della sua forza.

sabato 27 luglio 2013

UN ANTICO AMICO di Matteo Palmerini


Riaprì gli occhi: davanti a lui lo spettacolo era raccapricciante!
I suoi uomini, i suoi commilitoni erano tutti distesi nel fango della foresta, immobili!
Erano tutti morti.
La pioggia continuava a cadere sulle fronde degli alberi e sul sentiero che li attraversava, tintinnava sulle armature dei soldati e scrosciava sui rivoli di sangue formatisi nel fango.
Con la testa e i muscoli ancora dolenti Gaio provò ad alzarsi ma la sofferenza era tale, che al solo tentativo di camminare, tutto intorno a lui girava. Rimase fermo per qualche istante facendo respiri profondi, cercando di concentrarsi su altro per evitare di pensare al dolore.

Si riprese lentamente poi notò a terra, proprio lì accanto, i corpi morti di due barbari germanici. Si avvicinò ad uno e col piede lo mosse. L’uomo aveva la gola tagliata e la lacerazione aveva reciso anche la sua lunga barba rossa. Di fianco al suo corpo inerme c’era il gladio di Gaio. Subito si chinò, lo afferrò, lo pulì del sangue e del fango e lo rinfoderò.
Ancora qualche attimo per tornare con il pensiero alla battaglia, a quell’imboscata che aveva distrutto tutta la colonna militare della XVII legione di Roma. Sentiva ancora le urla dei suoi soldati che cercavano, con ogni mezzo, di fermare quell’avanzata inarrestabile, sentiva la carne trafitta dalle lame e udiva il clangore delle spade che battevano le une contro le altre.
Un suono lo riportò alla realtà: dietro di lui due uomini, due barbari lo stavano fissando. Un urlo, una parola in una lingua che lui non conosceva e i due si lanciarono all’assalto. Non c’era tempo per pensare, per lasciare che il dolore lo sopraffacesse, così si volse e iniziò a correre attraverso quella lunga distesa di corpi morti che si protendeva per circa un miglio.
Corse a più non posso saltando tra i cadaveri poi, alla prima occasione, si distaccò dal campo di battaglia mantenendo sempre il sud come meta finale. Correndo, infatti, aveva osservato le rocce e
gli alberi sui quali era cresciuto il muschio e gli fu semplice capire dove si trovava il nord. La pioggia continuava a cadere e a rendere sempre più difficile la sua corsa mentre sembrava che i suoi inseguitori si trovassero a loro agio su quel terreno accidentato e scivoloso. Le vene delle tempie iniziavano a pulsargli e la testa gli stava per scoppiare nell’elmo. La paura iniziava a prendere il sopravvento così, colto dalla disperazione, alzò lievemente lo sguardo e lasciò che la pioggia entrasse nell’elmo e gli bagnasse il volto mentre intonava un piccola preghiera al Dio Marte.

La stanchezza stava iniziando a prevalere quando sentì un rumore sordo dietro di lui. Rallentò la corsa, si volse e vide che i due cacciatori erano fermi. Anzi, uno dei due era a terra con
una gamba sanguinante.
Riprese fiato e si avvicinò al tronco di un albero caduto. Tra i due uomini c’era un enorme lupo dal pelo argenteo. L’uomo a terra era ormai vittima del suo predatore e in men che non si dica si ritrovò la bestia al collo e la vita che pian piano fluiva via dalla vena giugulare. Il compagno, fermo qualche metro più avanti, cercò di avventarsi sul lupo: ma questo ebbe la meglio anche su di lui e lo addentò alla gola.
Fermo in mezzo ai due corpi morti, il lupo, aveva il pelo della collottola irto, le orecchie buttate indietro e le labbra arricciate all’insù per mostrare i denti: improvvisamente girò il capo puntando lo sguardo verso il nascondiglio di Gaio.
Il soldato sapeva di dover scappare ma qualcosa lo tratteneva li, qualcosa lo spingeva ad avvicinarsi a quella bestia inferocita che aveva ucciso due cacciatori esperti in pochi attimi.
Si spostò dalla sua posizione, oltrepassò il tronco, poggiò una mano sul pomo del gladio e pian piano si avvicinò al lupo che continuava a fissarlo e a ringhiare rumorosamente. Nei pressi dell’animale si chinò in avanti e gli mostrò il dorso della propria mano al fine di farsi annusare e dimostrare la sua benevolenza. Il lupo si avvicinò con cautela e la fiutò, rilasciando le labbra che tornarono a coprire i denti. Dopo pochi istanti leccò le dita del soldato e si lasciò cadere.
Da un grosso taglio sul fianco scoperto del lupo colava sangue caldo che si mischiava alla pioggia e al fango.
Gaio si precipitò su di lui e cercò di medicare, come meglio poté, la ferita. Si strappò parte della tunica per fasciarla e cercò di sciacquarla con quel po’ d’acqua che trovò raccolta in una conca formatasi su una piccola roccia.
Si sedette a fianco al lupo, poggiando sulle proprie gambe la testa dell’animale. Sapeva di non poter fare altro, così iniziò ad accarezzarlo e a grattargli il pelo dietro l’orecchio. Si sganciò l’elmo crestato e lo pose di fianco, lasciando che la pioggia bagnasse il suo capo.
Passarono circa un’ora in quella posizione: poi il lupo alzò gli occhi verso di lui e, con un breve guaito ed uno sguardo intenso, si lasciò andare e spirò tra le braccia del nuovo amico.
Quasi impaurito da tutto ciò, Gaio si alzò e fece un paio di passi indietro cadendo poi sulle proprie ginocchia.
Aveva compreso...

Marte lo aveva ascoltato e aveva mandato un antico amico di Roma a salvargli la vita. Un lupo. Strinse i pugni sopra le gambe e, nel tentativo di trattenere le lacrime, gli si gonfiarono gli occhi. Ma fu uno sforzo vano poiché alla fine un rivolo caldo scese lungo la guancia mischiandosi all’acqua piovana.
Singhiozzando e tossendo si avvicinò gattoni al corpo del lupo e immerse il volto nel pelo bagnato. Poggiò la testa sul fianco per cercare ancora un piccolo sentore di vita ma il volere di Marte aveva fatto il suo corso. Una vita per un’altra.
Col volto ancora adagiato sulla pelliccia, Gaio notò una cosa che più di prima gli strinse il cuore e gli causò dei singhiozzi. Non era un lupo ma una lupa e, osservando il suo corpo, comprese che  doveva aver partorito dei cuccioli da non troppo tempo.
Subito si drizzò su se stesso e si mise alla ricerca della tana. Si alzò, riprese l’elmo e, tirando su col naso, provò a seguire le orme dell’animale.
Camminò per poche decine di metri senza trovare nulla, senza nemmeno un sentore della presenza di piccole creature. Nuovamente si sentì mancare e lasciò cadere tutto il suo peso sulle ginocchia. Lo sguardo perso nel vuoto e i pensieri che vorticavano. Si sentiva in colpa, voleva trovare quei piccoletti e dar loro la possibilità di vivere la propria vita.
Ancora perso nei suoi pensieri udì un piccolo guaito provenire da dietro un cespuglio, si volse di scatto e camminò carponi verso questo. Più si avvicinava e più i guaiti aumentavano. Giunto in prossimità, scostò le foglie e la sorpresa fu più grande di quanto credesse. La lupa aveva avuto due cuccioli stupendi che erano li, dietro quel cespuglio, proprio all’uscita della loro tana.
C’era un solo problema: continuando a scostare le foglie, notò che i piccoli stavano difendendo il loro rifugio da un serpente intenzionato più che mai a farli fuori. Così si volse e, afferrando il gladio, schizzò in piedi e con un fendente tagliò di netto la testa al serpente.
Si chinò verso i due che subito scapparono nella tana e rimasero lì mostrando solo i musetti che fiutavano l’aria.
Ancora una volta il veterano porse il dorso della mano e i cuccioli la annusarono e leccarono.
Forse perché sentirono l’odore della madre o forse perché veramente quello sconosciuto ispirava fiducia, i due cuccioli uscirono fuori e si lanciarono addosso al nuovo arrivato riempiendolo di feste, con la voglia di giocare.

Ed ecco, la volontà del dio Marte si palesò dinanzi agli occhi di Gaio: “Un antico amico di Roma ti ha salvato la vita e ora tu, veterano della XVII legione, devi dare la possibilità alla sua progenie di crescere e proliferare, dà loro la forza e le capacità per sopravvivere e soprattutto dimostra che la fiducia accordatati è stata ben riposta”.

domenica 21 luglio 2013

QUANDO TUTTO EBBE INIZIO - Capitolo II - di Matteo Palmerini


Nonostante fossi andato a letto molto tardi, mi svegliai presto, prima che la sveglia suonasse: erano le 7.30 del mattino. Mi alzai, feci colazione, mi preparai e intorno alle 8.30 andai in palestra. Passai li tutta la mattinata, mi allenai fino allo sfinimento e poi tornai a casa verso le 12.30 dove feci un breve pasto e poi mi addormentai a causa della disavventura della notte prima.
Dormii placidamente e, senza che me ne accorgessi, si fecero le 20.00. Mi svegliai quasi di soprassalto come se un rumore fosse provenuto dall'esterno del mio appartamento, lungo il corridoio del piano. Scossi un momento il capo e non diedi molto peso a quel possibile rumore, quindi mi alzai e mi andai a sciacquare la faccia con acqua fredda.
Era ora di cena ed io non avevo fame, probabilmente anche quella sera sarei potuto uscire con i miei amici ma la testa decise che era tempo di prendere la moto e andare a fare un bel giro lungo la riviera cittadina. Volevo prendere aria fresca e volevo che fosse l’aria della mia città e non quella del condizionatore.
Mi preparai indossando ciò che avevo messo la sera prima e, prendendo il casco e il portafoglio, uscii di casa chiudendola a chiave.
Viaggiai per quasi due ore lungo la riviera cittadina poi decisi di intraprendere strade più interne che volgessero verso le colline.
Proseguii lungo quella via poi, giunto su una collina molto alta dalla quale era possibile osservare tutta la città e l’immensità del mare che la bagnava, mi fermai e parcheggiai il mio scooterone. Scesi, e dopo essermi stiracchiato ben bene, mi avvicinai al limitare della collina dove mi sedetti lasciando cadere le gambe nel vuoto dello strapiombo che si creava da li ad una trentina di metri verso il basso. Osservai quello scenario notturno che donava alla città un certa eleganza. Un’eleganza che mai avrebbe potuto avere di giorno.
Restai in silenzio così da poter udire solo il rumore della brezza notturna che volava fra l’erba alta; in lontananza il rumore delle auto, del traffico e della città sembravano quasi il flebile ricordo di un brutto sogno.
Per giungere lì avevo abbandonato la strada normale e per circa un chilometro avevo seguito una strada di terra battuta che mi aveva imbrattato di polvere tutto lo scooterone.
A parte quei piccoli rumori di sottofondo potevo considerarmi in uno scenario molto silenzioso che in quella notte fresca si prestava ad essere uno dei migliori luoghi da frequentare durante quell'estate caldissima. L’erba che mi circondava era bagnata dell’umidità e grazie alla brezza che l’accarezzava, era molto fresca.
Tenni le mani poggiate li per molto tempo mentre lo sguardo volava da un lato all’altro della città: a sud si potevano vedere i locali posti sul lungo mare, pieni di giovani intenti a fare festa in quel periodo di ferie e vacanza, a nord la città era un po’ più silenziosa ma non troppo, dato che anche li i locali davano il loro apporto alla movida notturna. In lontananza, in mezzo al mare, si potevano scorgere distintamente le luci di una piattaforma petrolifera e di qualche barca uscita al largo di notte.
Passai molto tempo lì, seduto ad ascoltare la pace di quel luogo e a godermi quel momento tutto mio ripensando anche un po’ a ciò che era accaduto la sera prima con Martina. Un capitolo della mia storia si era chiuso per sempre e sapevo che un altro più bello si stava aprendo, ma non sapevo cosa mi avrebbe riservato.
D’un tratto sentii un rumore forte alle mie spalle e vidi il mio scooterone rovesciato per terra su di un fianco. «Ma che cazzo!» mi mossi in tutta fretta e andai li vicino per rialzarlo da terra. Sinceramente non riuscivo a capire come fosse caduto e l’unica possibilità che mi veniva in mente era che avessi messo male il cavalletto e che quel venticello avesse finito il lavoro.
Lo ritirai su, lo spostai da quel luogo e rimisi il cavalletto accertandomi che stesse tutto bene: fortunatamente non era successo nulla, gli specchietti non erano piegati e il fianco della carena non era graffiato.
Feci per girarmi verso il panorama quando la mia attenzione fu catturata da un particolare che un attimo prima non avevo notato: le chiavi che precedentemente avevo tolto e mi ero messo in tasca, erano nella moto ed erano pure girate nel quadro dei comandi. Sbarrai gli occhi e strinsi i denti quando notai quel particolare inquietante. Come diavolo era possibile una cosa simile? Le avevo in tasca. Alzai lo sguardo dal tachimetro della moto per osservare intorno e capire cosa stesse succedendo e dinanzi a me mi ritrovai, a pochi centimetri, esattamente dall'altro lato della moto, colui che la sera precedente era stato molto tempo ad osservarmi da lontano. Feci un balzo all'indietro che, se non fossi stato pronto nei riflessi, mi avrebbe causato una caduta a terra. «Che cazzo vuoi? Chi sei?» una dietro l’altra mi vennero fuori queste domande che rimasero senza risposta per molto tempo.
«Allora? Non vuoi rispondere? Sei muto?» continuai ad incalzarlo mentre il mio sguardo rimaneva fisso su quella cicatrice che aveva in mezzo alla guancia e che non faceva crescere più la barba.
Scosse il capo e abbassò lo sguardo sulla moto «Tu non sai chi sono ma io so tutto di te!» rispose con voce calma e pacata.
«Ah si? Sai tutto di me! E cosa sai?» risposi abbastanza alterato e innervosito da quella sua affermazione.
«Un ragazzo di venticinque anni che abita da solo in una piccola cittadina affacciata sul mare. Questo ragazzo lavora come assistente tecnico per una ditta di informatica, si è diplomato sei anni prima con la votazione di novantacinque centesimi e ha trovato subito lavoro presso questa azienda. E’ il migliore della sua palestra di kung Fu, gli piace godersi la vita con gli amici e soprattutto, ama con tutto se stesso la sua moto; o scooterone come lo chiama lui…» fece una pausa, quindi rialzò lo sguardo e mi fissò negli occhi «Ti basta come risposta?».
Rimasi colpito e impaurito da ciò che disse ma cercai di non darlo a vedere e subito risposi «Impressionante! Sono seguito da una spia che nonostante sappia tutto di me, non si accorge che non rappresento un pericolo per nessuno e che abbia la fedina pulita» piccola pausa anche per me «dunque cosa vuoi da me?» risposi ancora più nervoso tanto che iniziai a stringere i pugni e a sorreggere più che mai il suo sguardo. C’era solo una cosa che mi colpiva tantissimo di lui: era notte, c’era la luna piena che illuminava a giorno e lui risaltava tantissimo al colore bianco della luna. Incredibile era la fine di luglio e lui non aveva un briciolo di abbronzatura in volto.
«Se vuoi posso continuare nel dirti che il tuo cuore adesso ha un battito abbastanza regolare, nonostante sia un po’ più frenetico rispetto al solito, la vena che ti attraversa la tempia ti sta pulsando per il nervosismo e, nonostante sia molto buio so che stai stringendo i denti…» quando disse queste ultime cose sbarrai gli occhi, feci un passo indietro e alzai la guardia «ma che cazzo sei?».
Una domanda che si disperse nell'aria  Il soggetto sparì nell'ombra della notte senza lasciare alcuna traccia di se.
Mi guardai un po’ intorno mantenendo ancora alta la guardia e tesi le orecchie per sentire qualsivoglia piccolo rumore. Tutto taceva e nulla disturbava più quel luogo.

Cercai di rilassare i nervi con un lungo respiro, aprii il sotto sella della moto, presi il casco e dopo aver avviato il motore, andai via in men che non si dica.

Corsi più che potei, la paura era tanta e a qualsiasi semaforo mi fermavo, sembrava di vedere ancora quel “coso” che mi squadrava da lontano, nascosto in qualche angolo buio.
Arrivai al portone di casa mia, lo aprii e accesi subito la luce per controllare se mi avesse seguito o, addirittura, fosse arrivato prima di me. Fortunatamente non c’era. Posai le mie cose sul tavolo, accesi la televisione e mi buttai sul divano a fare un po’ di zapping. Il pollice camminava da solo sul telecomando e cambiava canale in continuazione, gli occhi erano fissi sullo schermo ma la mente era completamente altrove: non poteva essere quello che credevo io, non esistono quelle cose li. Come potevo iniziare a credere a quelle stronzate. Scossi il capo, mi alzai dal divano, spensi la tv e me ne andai a letto.
Ancora una volta passai una notte insonne pregna di incubi: sembrava che le mie paure più remote fossero venute a galla. Paure che neanche io sapevo di avere. Sognai di cadere nel vuoto, di cadere in un fiume in piena, di venire divorato da uno squalo ed infine, di nuovo, comparve il volto sbiadito di quel “coso” che per due giorni mi aveva tormentato.
Fortunatamente arrivò il mattino e il primo sole fece capolino tra le fessure della serranda. Mi sedetti sul letto e mi guardai un po’ intorno nella penombra della mia stanza.
I pensieri si affollavano veloci nella mente e stavo iniziando a credere veramente che quel tipo fosse solo un soggetto apparsomi in sogno e non una persona reale. Scossi il capo, sorrisi e mi alzai per andare a fare colazione.
Erano ormai quattro ore che stavo seduto alla mia scrivania con lo sguardo perso nel vuoto, le occhiaie e la mente che vagava per fatti propri. Osservavo i miei colleghi che erano tutti indaffarati nei loro lavori: chi programmava, chi montava su una Motherboard i pezzi giusti per assemblare un pc e chi, com'era giusto che fosse, dirigeva i lavori. Io ero uno degli assemblatori/manutentori che quella mattina lavorava per inerzia e a memoria, sapendo per bene cosa dovesse fare.
Finii la mia giornata di lavoro al solito modo, comprando una barretta di cioccolato dal distributore automatico.
La notte in bianco si faceva sentire, così tornai a casa, mangiai velocemente un piatto di pasta e mi misi a riposare sul letto prima di andare in palestra ad allenarmi.
Dormii pacificamente tutto il pomeriggio finché non suonò la sveglia che mi fece sobbalzare e mi ricordò di prepararmi per la palestra. Come sempre il borsone era prontissimo ma io ero uno zombie vivente e dovevo rimettermi in sesto, quindi andai in bagno e con dell’acqua fredda mi sciacquai il volto al fine di svegliarmi come si deve.
L’allenamento mi allontanò per un po’ da quei pensieri che mi farneticavano nella testa da giorni, mi diede l’opportunità di pensare un po’ a me stesso e di concentrarmi su altro.
Tornai a casa e quando inserii la chiave nella toppa della porta mi accorsi di un piccolo bigliettino attaccato al pomello: Quando ci rincontreremo? Domani, dopo domani? Oppure ora?
Quando lessi quell'ultima domanda mi bloccai ma cercai di rimanere calmo volendo finire di leggere il bigliettino; ma sapete cosa c’era scritto ancora più giù? GIRATI. Mi girai e vidi una figura nera sfocata. Dopo quel momento tutto divenne buio e un enorme dolore alla nuca mi fece perdere i sensi.
Mi svegliai tempo dopo e mentre la vista tornava e le immagini cominciavano ad essere nuovamente messe a fuoco, capii di essere a casa mia. Una volta ripresomi completamente e avendo anche percepito il forte mal di testa dovuto a quell'enorme bozzo sulla mia nuca, alzai lo sguardo e mi resi conto di non essere solo in casa e, soprattutto, di essere legato ad una delle sedie della mia cucina.
Ero molto impaurito e non parlai, non volevo dire qualcosa di sbagliato e non volevo commettere errori, lasciai che fossero quei due uomini a parlare. Esattamente, due uomini incappucciati mi avevano preso alla sprovvista facendomi svenire e legandomi alla sedia. Uno era dinanzi a me e l’altro era alle mie spalle.
Era luglio inoltrato, anzi, era quasi iniziato agosto e loro indossavano dei passamontagna. Dei passamontagna asciutti dal sudore. Come diavolo facevano? Comunque non era quella la mia più grande preoccupazione.

«Il capo dice che sei troppo utile e che non dobbiamo farti fuori ma a me piace uccidere gli innocenti» disse l’uomo che camminava avanti e indietro, dinanzi a me.
«Sta zitto, non dire cazzate e rilassati. Tra poco il capo arriverà e lo porteremo via» ribatté l’altro alle mie spalle.
«Via, dove? Dove volete portarmi?» chiesi con molta preoccupazione.
Il neon di quella stanza illuminava tutti e tre e mostrava il fisico prestante di entrambi quegli uomini: uno era più alto e più muscoloso ma avrei giocato tutto quello che avevo che l’altro era molto più veloce e scaltro. Indossavano dei jeans neri e due canotte altrettanto nere, la loro pelle era abbronzata ma il neon la rendeva molto chiara.
«Shhh» disse di nuovo il primo con un sibilo.

La luce andò via, il neon si spense e l’ultima cosa che sentii fu «Oh merda!».

domenica 14 luglio 2013

QUANDO TUTTO EBBE INIZIO - Capitolo I - di Matteo Palmerini

«Fai schifo!»
Sì, la mia storia con lei, la donna che credevo di amare con tutto me stesso, finì in quel momento e con quel cordiale saluto.
Ricordo ancora quell’attimo: sono passati tantissimi anni ma da quel giorno il mio modo di guardare il mondo cambiò per sempre. I miei occhi iniziarono a vedere sotto un nuovo aspetto tutto ciò che prima era una routine per me. Il semplice strombazzare delle auto che percorrevano la via principale della città notturna, era divenuto per me qualcosa di… di… diverso.
E’ tempo che io vi racconti ciò che accadde, è tempo che sappiate come io sono morto.

26 Luglio 2010 ore 20.00 - Quando tutto ebbe inizio

Era una caldissima serata di mezza estate ed ero sul balcone del mio piccolo appartamento con una bottiglia di birra in mano mentre osservavo le persone che tornavano verso le loro abitazioni dopo una lunghissima giornata di mare. Non sono mai stato un tipo da mare ma mi è sempre piaciuto il tramonto estivo e l’aria fresca che porta con sé per sconfiggere il caldo torrido del giorno.
Continuavo a guardare la strada, osservavo tutte quelle persone abbronzatissime e, alle volte scottatissime, che tornavano felici dalla spiaggia. Gruppi di ragazzi, babysitter con i bambini, piccole famigliole, tutti che stavano abbandonando quel luogo per tornare a casa e, chissà, forse per prepararsi ad una serata di divertimenti o a una cena romantica.
Rimasi li sul balcone con la mia birra per circa un’ora fin quando vidi comparire all'inizio della via l’auto della mia ragazza. Un lieve sorriso mi si formò in volto, così poggiai la birra sul tavolo del balcone e rientrai in casa. Mi tolsi la canotta che indossavo e misi una T-shirt, tolsi i pantaloncini e misi i miei bermuda. Presi le chiavi di casa, il cellulare e il portafoglio e aprii la porta di casa per uscire ma quella figura me lo impedì.
«Cristo Santo Martina. Mi vuoi far prendere un coccolone al cuore?» dissi subito dopo aver fatto un piccolo balzo indietro per lo spavento.
«No, non te lo farei mai prendere prima di aver fatto un paio di chiacchiere con te» rispose con tono di voce secco e duro.
«Che cosa ho fatto questa volta?» proseguii mentre mi scostavo dall'uscio della porta per farle spazio.
Lei iniziò a parlare, quella solita tiritera che mi ripeteva ormai da un mese: sono ormai due anni che vivi qui da solo, quando ti deciderai a mettere la testa a posto? Quando potremmo iniziare a vivere insieme? Sei rimasto il ragazzo immaturo di sempre, ecc. ecc. Giuro che avrei potuto ripetere quelle parole io stesso, tante erano le volte che le aveva dette. Quando finì di parlare, presi un paio di bicchieri e una bottiglia d’acqua fresca e volgendomi verso di lei sorrisi dicendo «Mi spieghi cosa vuoi da me?». Un lungo silenzio, durante il quale lei sembrava si stesse preparando ad esplodere, percorse la stanza.
«Fammi capire, ho parlato per mezz'ora e tu non hai sentito una parola di quello che ho detto?» incalzò lei, irrompendo in quel sordo silenzio.
«Esattamente. Sono settimane che mi ripeti sempre la stessa cosa ma forse non ti sei accorta che di tutto ciò che hai appena detto non mi interessa nulla» risposi con tono tranquillo mentre versavo dell’acqua nel mio e nel suo bicchiere, poi continuai «questa tua tiritera la so a memoria e nonostante io ti abbia già dato una risposta, tu continui a portarla avanti» feci un piccolo sospiro e ripresi «no! Non voglio vivere con te, non voglio vivere con nessuno, voglio i miei spazi per me, voglio stare per cazzi miei e soprattutto vorrei iniziare a vivere come dico io e non come dici tu! Fammi un piacere: inizia a decidere solo per te stessa» finii di parlare e bevvi il mio bicchiere d’acqua tutto d’un sorso.
Sembrava che quelle parole l’avessero colpita nel profondo dell’orgoglio, sembrava che qualcosa fosse cambiato in lei: per la prima volta non sapeva come rispondere e, cosa più eclatante, non riusciva a trovare degli insulti da lanciarmi. Così, fissandomi dritto negli occhi si alzò di scatto e riprendendo la sua borsa da sopra il tavolo mi volse le spalle «e ora che fai, non sapendo cosa rispondere, scappi?» incalzai con, probabilmente, il miglior tempismo si sempre.
«No, non scappo, mi allontano dalla puzza di merda che emani… Fai schifo!» E così aprì improvvisamente la porta e fece per uscire.
In quel momento tutto rallentò ed io la vidi finalmente per quello che era: una ragazza con bisogno di attenzioni che sfociava questo suo disagio nel voler essere la parte dominante della coppia; una ragazza che voleva mascherare le sue debolezze con un’armatura di ostentata forza e predominio. Nonostante capii ciò, non tornai sui miei passi: anche io ero stanco e non ne potevo più di quella situazione. Era tempo di cambiare.
I pensieri continuavano ad affollarsi nella mente in quell'istante che sembrava durare ore, ma l’unica cosa che riuscivo percepire di lei era quel fisico da modella: quelle gambe lunghe che iniziavano con dei piedi fantastici e finivano in due glutei sodi e duri come il marmo, quei fianchi perfetti che davano origine a delle curve pericolose, quella terza di seno che mi aveva fatto impazzire in quell'ultimo anno, quelle labbra morbide e quel sorriso stupendo che mi piacevano tantissimo e quei suoi grandi occhi azzurri che facevano risaltare, in quel volto piccolo, la carnagione scura e i capelli castani.
Si, probabilmente non era ancora tempo di avere una storia seria con qualcuno. Probabilmente era solo sesso, solo quello cercavo.
Quell'istante cessò ed ella sparì sbattendo la porta dietro di lei.


Era andata via per sempre, la nostra storia di un anno era finita lì. In teoria avrei dovuto iniziare a star male, magari a piangere, ma ciò che sentivo era solo una perfetta sintonia con me stesso e con tutto ciò che mi stava intorno. Feci spallucce e afferrai il telecomando del condizionatore, lo accesi in modalità “deumidificatore” e poi mi alzai dalla sedia per lasciarmi cadere a peso morto sul divano.
Iniziai a guardarmi intorno, a guardare quel piccolo anfratto nel quale vivevo: una saletta/ingresso con una cucina che spariva nel muro grazie ad una porta/armadio, un bagno e una camera da letto. Non era molto ma per me andava benissimo: era il mio regno.
Dopo un buon quarto d’ora passato disteso sul divano, mi sedetti e afferrai il telecomando per accendere la televisione. Proprio nel momento in cui stavo per premere il tasto di accensione il mio cellulare, ancora nella tasca dei miei bermuda, squillò e vibrò. Era arrivato un messaggio che lessi in fretta: “sta sera ci andiamo a fare una birra con il gruppo, vieni?
Ma sì, meglio che stare a casa a vedere la televisione. Così risposi al messaggio chiedendo a che ora era l’incontro e dove. La risposta arrivò celere suggerendomi che l’orario e il luogo erano i soliti.
Mi preparai un paio di uova fritte, un pezzo di pane abbrustolito sulla fiamma e un poco di insalata che mangiai in tranquillità facendo arrivare l’ora di uscire. Tutto questo mentre guardavo il telegiornale nazionale. Nessuna notizia nuova: la crisi nel nostro paese, le forze dell’ordine che facevano l’ennesima retata a casa di rumeni che trafficavano droga nei pressi della capitale, ancora un omicidio passionale nel nord del paese, un altro boss della criminalità organizzata che veniva arrestato e portato in carcere. Nulla di ché.
Passò un’ora e mezza e così mi alzai dalla sedia, presi il piatto, le posate e il bicchiere e andai a lavare tutto nel lavandino della cucina. Appena finii, pulii il lavello e mi diressi in bagno dove mi lavai i denti e mi sciacquai le mani e il volto.
Fatto tutto ciò ripresi le chiavi di casa e della moto ed uscii.
Andai al punto d’incontro e come sempre fui il primo ad arrivare, così parcheggiai, mi tolsi il casco che misi nel sotto sella e andai a sedere sul muretto.
Il nostro solito luogo d’incontro estivo era un punto preciso della riviera, nei pressi di uno stabilimento balneare posto di fronte ad una cornetteria. Era il meglio che potessimo chiedere: prima una o più birre insieme e poi, dopo aver smaltito tutto l’alcol tra battute e risate si andava a prendere un cornetto alla crema o al cioccolato proprio li di fronte. Il tutto coronato da una passeggiata sulla riviera al fine di osservare il maggior numero di “lati B” di ragazze, ai quali apporre un voto.
La serata iniziò proprio li dove ero solito aspettarli: un muretto basso che delimitava il marciapiede e la spiaggia; un posto tranquillo dove potersi sedere ed iniziare subito a dare i primi voti (anche da solo). Nel frattempo presi le cuffiette del cellulare e le attaccai all’Iphone per iniziare ad ascoltare la musica.
Passai circa dieci minuti in solitudine; beh, per modo di dire ero solo… In breve tempo arrivarono tutti i miei amici: Giulio, Marco, Stefano, Luigi e la sua ragazza rompipalle, Luisa.
Appena arrivò l’ultimo di noi, ovvero Luigi che dava sempre la colpa a Luisa per averci messo troppo tempo nel prepararsi, mi alzai e battei le mani «Allora, Birra?» dissi abbastanza entusiasta di quell'inizio di serata. Tutti insieme risposero con un sonoro «Certo, che domande!».
Mi alzai e incoraggiai gli altri ad avviarci verso l’entrata dello stabilimento rimanendo dietro la fila.


Entrarono tutti nel locale e Giulio tenne la porta aperta per far entrare anche me. Qualcosa, però, attirò la mia attenzione: un uomo in lontananza, dall'altra parte della strada, vicino alla cornetteria, mi fissava e lo stava facendo da quando io ero arrivato lì. Non avevo dato molta importanza al soggetto considerandolo un matto di strada, ma in quel momento un qualcosa, una scintilla, un luccichio che provenne da lui mi incuriosì e mi fece voltare. Continuava a stare nella posizione di prima, appoggiato al muro con la schiena e una gamba flessa che poggiava la pianta del piede sul muro. Indossava una T-shirt nera, dei jeans strappati e un paio di converse nere. Il volto non sono mai riuscito a vederlo per bene dato che aveva sempre lo sguardo basso ogni qualvolta mi giravo ad osservarlo.
«Ehi, ci sei?» disse Giulio incuriosito dalla mia esitazione.
«Eh? Si si, perdonami.» risposi e subito dopo entrai nel locale.
«Tutto bene?» continuò lui mentre mi dava una pacca sulla spalla e lasciava che la porta si chiudesse alle mie spalle.
«Si, tutto bene. Sono solo un po’ stanco e frastornato. Inoltre, non ve l’ho ancora detto ma oggi io e Martina ci siamo lasciati.» risposi con un mezzo sorriso dipinto in volto.
Lui si fermò e mi afferrò per un braccio «Davvero? E come mai?» mi fece questa domanda ma già sapeva la risposta, infatti dal suo sguardo si poteva trapelare quel senso di ironia che, avvicinato alla domanda, la rendeva quasi comica.
«Lo sai il “perché”. Mi ero rotto le scatole di stare con una che mi diceva quello che dovevo fare. Finché è servita al suo scopo andava tutto bene, ma da quando ha iniziato a dettare legge, la sua legge, non mi è andata più bene» risposi in questa maniera alimentando l’ironia che si era venuta a creare nell'aria e continuando a sorridere al mio amico.
 «Eh si, me lo aspettavo proprio. Dai, andiamoci a fare sta birra benedetta!» continuò lui passandomi il braccio sulla spalla.

            La serata trascorse in tranquillità tra risa, battute e scherzi alla ragazza di Luigi che ormai era diventata l’obiettivo di ogni nostra serata. Chi riusciva a farla imbestialire poteva anche meritarsi una birra gratis. Il tutto avveniva affinché lei si arrabbiasse con Luigi e desse tutta la colpa a lui. Poverino non era mai colpa sua ma si beccava sempre le peggiori strigliate e al contrario, noi ci facevamo grasse risate.
Non andammo a prendere solito il cornetto, anzi, passammo così tanto tempo al tavolo dello stabilimento che non ci accorgemmo dell’orario: si erano fatte le 3:00. Quando guardai l’orologio sgranai gli occhi e mi volsi verso gli altri «Credo sia il caso di tornare a casa. Sono le tre e domani mi devo alzare presto» e nel dire ciò mi alzai dalla mia sedia. Tutti mi seguirono e uscimmo dal locale. Mi accompagnarono fino al mio scooterone e da lì ognuno per la sua strada.
Presi il casco e nel metterlo mi guardai intorno cercando quella figura che precedentemente era rimasta molto tempo a fissarmi dal lato opposto della strada. Non riuscivo a vederla ed essendo molto stanco non gli diedi peso avviandomi verso casa mia, sapendo che l’indomani mattina mi aspettava il solito allenamento di Kung Fu. Sì, ero iscritto ad una palestra di arti marziali ed ero il migliore del mio corso nell'arte del Kung Fu.
Tornai a casa, mi svestii, mi feci una doccia veloce per togliermi di dosso quell'umidità che mi aveva reso appiccicoso e mi misi a letto. Ricordo ancora come quella notte fu un tormento completo per me, come dormii male nel mio letto (cosa che non mi era mai accaduta) e come i sogni mi rovinarono il sonno. E’ ancora nitido nella mia mente il ricordo di quel sogno nel quale mi trovavo nel giardino della mia vecchia casa, della casa dei miei genitori, ero in piedi dinanzi al corpo morto di mio fratello, trucidato da non si sa cosa.