Riaprì gli occhi: davanti a lui lo spettacolo era
raccapricciante!
I suoi uomini, i suoi commilitoni erano tutti distesi nel
fango della foresta, immobili!
Erano tutti morti.
La pioggia continuava a cadere sulle fronde degli alberi e
sul sentiero che li attraversava, tintinnava sulle armature dei soldati e
scrosciava sui rivoli di sangue formatisi nel fango.
Con la testa e i muscoli ancora dolenti Gaio provò ad
alzarsi ma la sofferenza era tale, che al solo tentativo di camminare, tutto
intorno a lui girava. Rimase fermo per qualche istante facendo respiri
profondi, cercando di concentrarsi su altro per evitare di pensare al dolore.
Si riprese lentamente poi notò a terra, proprio lì accanto, i
corpi morti di due barbari germanici. Si avvicinò ad uno e col piede lo mosse.
L’uomo aveva la gola tagliata e la lacerazione aveva reciso anche la sua lunga
barba rossa. Di fianco al suo corpo inerme c’era il gladio di Gaio. Subito si
chinò, lo afferrò, lo pulì del sangue e del fango e lo rinfoderò.
Ancora qualche attimo per tornare con il pensiero alla
battaglia, a quell’imboscata che aveva distrutto tutta la colonna militare della
XVII legione di Roma. Sentiva ancora le urla dei suoi soldati che cercavano,
con ogni mezzo, di fermare quell’avanzata inarrestabile, sentiva la carne
trafitta dalle lame e udiva il clangore delle spade che battevano le une contro
le altre.
Un suono lo riportò alla realtà: dietro di lui due uomini, due
barbari lo stavano fissando. Un urlo, una parola in una lingua che lui non
conosceva e i due si lanciarono all’assalto. Non c’era tempo per pensare, per
lasciare che il dolore lo sopraffacesse, così si volse e iniziò a correre
attraverso quella lunga distesa di corpi morti che si protendeva per circa un
miglio.
Corse a più non posso saltando tra i cadaveri poi, alla
prima occasione, si distaccò dal campo di battaglia mantenendo sempre il sud
come meta finale. Correndo, infatti, aveva osservato le rocce e
gli alberi sui quali era cresciuto il muschio e gli fu semplice capire dove si
trovava il nord. La pioggia continuava a cadere e a rendere sempre più
difficile la sua corsa mentre sembrava che i suoi inseguitori si trovassero a
loro agio su quel terreno accidentato e scivoloso. Le vene delle tempie
iniziavano a pulsargli e la testa gli stava per scoppiare nell’elmo. La paura iniziava
a prendere il sopravvento così, colto dalla disperazione, alzò lievemente lo
sguardo e lasciò che la pioggia entrasse nell’elmo e gli bagnasse il volto
mentre intonava un piccola preghiera al Dio Marte.
La stanchezza stava iniziando a prevalere quando sentì un
rumore sordo dietro di lui. Rallentò la corsa, si volse e vide che i due
cacciatori erano fermi. Anzi, uno dei due era a terra con
una gamba
sanguinante.
Riprese fiato e si avvicinò al tronco di un albero caduto.
Tra i due uomini c’era un enorme lupo dal pelo argenteo. L’uomo a terra era
ormai vittima del suo predatore e in men che non si dica si ritrovò la bestia
al collo e la vita che pian piano fluiva via dalla vena giugulare. Il compagno,
fermo qualche metro più avanti, cercò di avventarsi sul lupo: ma questo ebbe la
meglio anche su di lui e lo addentò alla gola.
Fermo in mezzo ai due corpi morti, il lupo, aveva il pelo
della collottola irto, le orecchie buttate indietro e le labbra arricciate
all’insù per mostrare i denti: improvvisamente girò il capo puntando lo sguardo
verso il nascondiglio di Gaio.
Il soldato sapeva di dover scappare ma qualcosa lo
tratteneva li, qualcosa lo spingeva ad avvicinarsi a quella bestia inferocita
che aveva ucciso due cacciatori esperti in pochi attimi.
Si spostò dalla sua posizione, oltrepassò il tronco, poggiò
una mano sul pomo del gladio e pian piano si avvicinò al lupo che continuava a
fissarlo e a ringhiare rumorosamente. Nei pressi dell’animale si chinò in
avanti e gli mostrò il dorso della propria mano al fine di farsi annusare e
dimostrare la sua benevolenza. Il lupo si avvicinò con cautela e la fiutò,
rilasciando le labbra che tornarono a coprire i denti. Dopo pochi istanti leccò
le dita del soldato e si lasciò cadere.
Da un grosso taglio sul fianco scoperto del lupo colava
sangue caldo che si mischiava alla pioggia e al fango.
Gaio si precipitò su di lui e cercò di medicare, come meglio
poté, la ferita. Si strappò parte della tunica per fasciarla e cercò di
sciacquarla con quel po’ d’acqua che trovò raccolta in una conca formatasi su
una piccola roccia.
Si sedette a fianco al lupo, poggiando sulle proprie gambe
la testa dell’animale. Sapeva di non poter fare altro, così iniziò ad
accarezzarlo e a grattargli il pelo dietro l’orecchio. Si sganciò l’elmo crestato
e lo pose di fianco, lasciando che la pioggia bagnasse il suo capo.
Passarono circa un’ora in quella posizione: poi il lupo alzò
gli occhi verso di lui e, con un breve guaito ed uno sguardo intenso, si lasciò
andare e spirò tra le braccia del nuovo amico.
Quasi impaurito da tutto ciò, Gaio si alzò e fece un paio di
passi indietro cadendo poi sulle proprie ginocchia.
Aveva compreso...
Marte lo aveva ascoltato e aveva mandato un antico amico di
Roma a salvargli la vita. Un lupo. Strinse i pugni sopra le gambe e, nel
tentativo di trattenere le lacrime, gli si gonfiarono gli occhi. Ma fu uno
sforzo vano poiché alla fine un rivolo caldo scese lungo la guancia mischiandosi
all’acqua piovana.
Singhiozzando e tossendo si avvicinò gattoni al corpo del
lupo e immerse il volto nel pelo bagnato. Poggiò la testa sul fianco per
cercare ancora un piccolo sentore di vita ma il volere di Marte aveva fatto il
suo corso. Una vita per un’altra.
Col volto ancora adagiato sulla pelliccia, Gaio notò una
cosa che più di prima gli strinse il cuore e gli causò dei singhiozzi. Non era
un lupo ma una lupa e, osservando il suo corpo, comprese che doveva aver partorito dei cuccioli da non
troppo tempo.
Subito si drizzò su se stesso e si mise alla ricerca della
tana. Si alzò, riprese l’elmo e, tirando su col naso, provò a seguire le orme
dell’animale.
Camminò per poche decine di metri senza trovare nulla, senza
nemmeno un sentore della presenza di piccole creature. Nuovamente si sentì
mancare e lasciò cadere tutto il suo peso sulle ginocchia. Lo sguardo perso nel
vuoto e i pensieri che vorticavano. Si sentiva in colpa, voleva trovare quei
piccoletti e dar loro la possibilità di vivere la propria vita.
Ancora perso nei suoi pensieri udì un piccolo guaito
provenire da dietro un cespuglio, si volse di scatto e camminò carponi verso
questo. Più si avvicinava e più i guaiti aumentavano. Giunto in prossimità,
scostò le foglie e la sorpresa fu più grande di quanto credesse. La lupa aveva
avuto due cuccioli stupendi che erano li, dietro quel cespuglio, proprio
all’uscita della loro tana.
C’era un solo problema: continuando a scostare le foglie,
notò che i piccoli stavano difendendo il loro rifugio da un serpente
intenzionato più che mai a farli fuori. Così si volse e, afferrando il gladio,
schizzò in piedi e con un fendente tagliò di netto la testa al serpente.
Si chinò verso i due che subito scapparono nella tana e
rimasero lì mostrando solo i musetti che fiutavano l’aria.
Forse perché sentirono l’odore della madre o forse perché
veramente quello sconosciuto ispirava fiducia, i due cuccioli uscirono fuori e
si lanciarono addosso al nuovo arrivato riempiendolo di feste, con la voglia di
giocare.
Ed ecco, la volontà del dio Marte si palesò dinanzi agli
occhi di Gaio: “Un antico amico di Roma ti ha salvato la vita e ora tu,
veterano della XVII legione, devi dare la possibilità alla sua progenie di
crescere e proliferare, dà loro la forza e le capacità per sopravvivere e
soprattutto dimostra che la fiducia accordatati è stata ben riposta”.
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