Alcuni secondi dopo la
luce tornò ed io, ancora seduto sulla sedia, ero slegato e le corde tagliate erano
ai miei piedi. Alzai lo sguardo e vidi di nuovo la mia persecuzione.
Impaurito feci un balzo
indietro e mi misi in piedi. In quel momento vidi cosa realmente era successo:
il “come” non lo sapevo, il “quando” non riuscivo a capirlo ma sul pavimento di
casa mia giacevano distesi due uomini incappucciati con le rispettive gole
tagliate e il sangue che vagava tra una mattonella e l’altra.
Mi ghiacciai, alzai
lentamente lo sguardo verso il possibile autore di quel massacro e lo fissai
dritto negli occhi «che cosa hai fatto? Sei stato tu a fare questo massacro in
casa mia?».
Non arrivò subito una
risposta ma, scrutandomi prima e sorridendo poi, il mio peggiore incubo decise
di rispondere «come puoi vedere non ti è più possibile restare in casa tua
altrimenti la scientifica si accorgerà di cosa hai fatto!» non capivo cosa volesse dire ma quando finì
di parlare abbassò lo sguardo sulla mia mano ed io lo seguii col mio.
Iniziarono a venirmi le vertigini, quasi non sembrava reale: avevo in mano il
coltello della mia cucina che ancora gocciolava di sangue.
Le gambe tremavano, mi
stavano per uscire le lacrime e mi sentivo molto accaldato ma in un momento di
lucidità rialzai lo sguardo verso il mio interlocutore «Come è possibile?». Gli
occhi si erano gonfiati ma lui non si scomponeva, anzi, fece spallucce e con un
ghigno dipinto in volto rispose «semplice, sei un assassino. E’ giunto il
momento che tu ti veda per quello che sei veramente». Vacillai non riuscendo a
capire come tutto ciò fu possibile: in primis non ero un assassino ed in secundis
io non avrei potuto fare quelle cose mentre ero legato e in così poco tempo.
«Vieni con me, ti porto
al sicuro e nessuno saprà cosa è successo. Ho un paio di uomini qui intorno che
verranno a ripulire la casa prima che arrivi la polizia» mi porse la mano e mi
sorrise.
Avevo paura, davvero
tanta paura, soprattutto non volevo finire in galera. Afferrai la sua mano e la
strinsi come se stessi sugellando un accordo con lui, inspirai tirando su col
naso «d’accordo, andiamocene. Ma devi garantirmi che questi due spariranno per
sempre» dissi quest’ultima frase stringendo ancora di più la mano del mio
interlocutore. Tanta era la tensione che non mi ero accorto del guanto che
quell’uomo indossava in piena estate. Lui annuì e mi fece strada fuori dal mio
appartamento, giù per le scale del mio palazzo e fuori in strada verso una
macchina scura, una Volkswagen Golf GT. Entrai e mettendo la cintura seguii con
lo sguardo l’uomo che nei giorni precedenti mi aveva perseguitato, ma che in
quel momento mi stava aiutando. Prese in mano il cellulare e lo sentii dire
qualcosa ma non riuscii a capire cosa. Poco dopo salì in macchina e ci allontanammo. Non passò molto tempo ch’io
chiusi gli occhi e scesi in un sonno profondo.
«Che ne dici di
svegliarti?» una voce ovattata mi stava parlando ma il sonno era ancora
pesante.
«Forza, alzati, sono
quattro ore che dormi» continuò divenendo sempre più nitida.
«Ma che ore sono?»
dissi alzando la testa.
«E’ l’una e trenta di
notte» rispose ancora quella voce che non riuscivo ad identificare a causa del
buio.
«Dove diavolo sono?»
chiesi ancora una volta mentre mi sedevo. Non ricevetti risposta ma si accese
la luce di una abatjour che mi mostrò parte del luogo.
Ero disteso su un
divano di pelle che si trovava al centro di una stanza di legno, sotto il
divano c’era un tappeto molto grande che sicuramente era stato acquistato da
qualche venditore persiano, alle pareti erano appese le teste di un orso, un
grosso cervo e un lupo e alla mia destra, nel muro, era incastonato un enorme
camino che chiaramente era spento in quel momento. C’erano delle piccole
finestrelle nelle parti alte delle pareti e una grande scalinata che dalle mie
spalle saliva e si perdeva nel buio.
«Benvenuto nella mia
umile dimora» disse l’uomo allontanandosi in quel momento dalla abatjour.
Lentamente portai la mano dietro la nuca e mi toccai il bozzo formatosi a causa
di quel brutto colpo subìto davanti il portone di casa mia.
Era strano, mi ero
svegliato con quel senso di angoscia che generalmente segue una tua azione
cattiva che hai omesso ad altri: il senso di colpa. Eppure mi sentivo a mio
agio e tranquillo quando quella persona era vicina a me: il suo corpo, il suo
sguardo ma soprattutto i suoi occhi, emanavano un’aura di calma e relax che lo
facevano apparire come un amico fedele che avrebbe dato la vita per te.
Mi sedetti per bene,
alzai lo sguardo verso di lui e feci quella domanda a cui non ebbi risposta tempo
addietro «ma tu, chi sei? E perché mi hai aiutato?».
Prese una bottiglia di
vino senza etichetta e se ne versò un poco in un calice, quindi si avvicinò al
divano e si sedette affianco a me «come chi sono? Sono il tuo benefattore.
Quello che ha impedito che tu finissi dietro le sbarre!» disse con tono ironico
e poi bevve un sorso di quel vino che sembrava più un mosto liquoroso. Era di
un rosso molto acceso e il liquido era molto denso. «E di questo te ne sono
grato. Ma chi sei? Come ti chiami? Da dove vieni?» ancora una volta porsi una
serie di domande a catena, soprattutto ero curioso di sapere la risposta
dell’ultima. Iniziavo solo ora ad accorgermi veramente di quanto fosse chiara
la sua pelle nonostante fossimo in piena estate, quindi volevo sapere se era
albino o provenisse da qualche paese nordico.
Il colore della pelle,
però, non collimava con i tratti del volto che lo facevano apparire come un
uomo mediterraneo.
Si alzò col calice in
mano e scosse la testa «a tempo debito tutte le risposte arriveranno. Ora…»
stava per dire qualcosa ma venne interrotto dall’arrivo di un uomo che percorse
la scalinata e ci raggiunse in sala «Signore, come avevate ordinato: tutto
sistemato». Era un soggetto alto e muscoloso, aveva la pelle e i capelli molto
chiari e, se avessi dovuto rispondere ad una domanda sulla sua provenienza mi
sarei buttato ciecamente su una risposta sola: tedesco. Nonostante ciò, la cosa
che più risaltava all’occhio erano le sue braccia: aveva dei bicipiti enormi e
non scherzo se affermo che erano grandi quanto il mio cranio. Così il padrone
di casa annuì e con un gesto della mano lo congedò. L’omone tedesco allora
chinò il capo e poi lasciò la stanza.
«Dicevo…» riprese il
mio interlocutore.
«Chi è quell’uomo?» lo
interruppi velocemente con questa domanda.
«E’ uno degli uomini
che lavorano per me e proteggono la mia casa. Sai, quando girano molti soldi
per le tue tasche, c’è molta gente che te li vuole portare via e così hai
bisogno di qualcuno che ti protegga» mi dava le spalle e teneva lo sguardo
fisso sulla testa di orso che aveva appesa in quel salone.
«Dicevo» continuò
ancora una volta «ora che sei qui, che ti ho salvato dal baratro in cui saresti
finito, veniamo a noi, a ciò che ora tu devi fare per me» nel dire le ultime
parole si volse e mi guardò dritto negli occhi. «Fare? Fare per te?» chiesi con
tono molto preoccupato «io dovrei fare qualcosa per te?» continuai ancora a
fare domande non riuscendo a trattenere la grossa preoccupazione. «Ragazzo, la
vita è un Do ut Des, io dò affinché
tu dia. Ed avendo io ampiamente dato, adesso tocca a te dare qualcosa» la
risposta mi suonava molto minatoria ma il tono di voce era molto tranquillo e
mi metteva a mio agio, così non potei fare altro che chiedere «quindi cosa
dovrei fare per te?». L’uomo si avvicinò, prese una sedia, la pose col dorso innanzi
a me e vi si sedette appoggiando gli avambracci sullo schienale «Domani mattina
dovrai andare in questo stabilimento balneare» mentre parlava mi stava
mostrando la foto di uno stabilimento della città «e incontrare un uomo che si
presenterà a te come “la guardia”»
fece una piccola pausa spostando lo sguardo da me alla foto «quest’uomo ti
consegnerà una busta chiusa ermeticamente che tu dovrai tenere con te fino a
domani sera». Inarcai il sopracciglio e chiesi «perché fino a domani sera?» -
«perché solo allora io e te ci incontreremo nuovamente». Mi diede un mazzo di
chiavi e un bigliettino sul quale era scritto un indirizzo «appena avrai la
lettera va a questo indirizzo e restaci fino a sera e tieni a mente una cosa
ragazzo mio: non puoi farti vedere in giro». Non capii cosa volesse intendere e
socchiusi gli occhi «che vuoi dire? Perché non posso farmi vedere in giro
adesso?» - «Beh, dopo quello che è accaduto ieri in casa tua è meglio se
sparisci per un po’ dalla circolazione, non trovi?» capii in quel momento cosa
volesse intendere e mi lasciai andare un momento «Ho capito. Va bene, farò ciò
che mi hai chiesto. In fin dei conti non mi sembra un lavoro difficile, a parte
il non potermi far vedere in giro». L’uomo si alzò dalla sedia sorridendo, la
ripose dov’era e si avvicinò a me poggiandomi una mano sulla spalla «sono
sicuro che ce la farai». Detto ciò si allontanò avviandosi verso la scalinata
«e dove starò questa notte?» chiesi un
po’ preoccupato «resta pure qui, sarai al sicuro». Con queste parole l’uomo
lasciò la stanza e dopo il rumore dei suoi passi si sentì solo quello di una
porta chiusa lentamente.
Ci si chiederà: era
quello il momento buono per scappare? In effetti, se avessi voluto, quello
sarebbe stato un ottimo momento ma qualcosa mi faceva sentire a mio agio in
quella stanza, qualcosa aleggiava nell’aria e mi rendeva calmo, non volevo
andare via, anzi ero molto intenzionato a portare a termine quel compito
affidatomi per il giorno successivo.
Mi alzai dal divano
perché volevo vedere meglio la stanza con la luce del lampadario e non con
quella della abatjour; così la accesi. Ora, ai miei occhi si presentava una
stanza ancor più grande di quella che riuscivo a vedere prima e la cosa che mi
colpì più di tutte era una parete che precedentemente non scorsi a causa della
poca luce. Su quel muro erano appese una quantità incredibile di armi da fuoco
e armi bianche. Era rivestita da un vetro molto spesso che le proteggeva. Non
mi avvicinai più di tanto ma le osservai con cura notando quanto fossero ben
tenute e pulite, soprattutto le armi bianche che luccicavano al riflesso della
luce.
Poco dopo scostai lo
sguardo e cercai altro nella stanza ma oltre a notare nuovamente che fosse più
grande di quella che credevo vidi solo una porta posta sotto la scalinata. Mi
avvicinai e la aprii lentamente, era tutto buio ma si scorgeva un piccolo corridoio
che conduceva ad un'altra soglia. Coprii quel paio di metri, la raggiunsi e la
varcai. Quando accesi la luce, una stanza da letto si mostrò ai miei occhi: un
letto matrimoniale si trovava con la testa contro la parete che si profilava
dinanzi a me, ai suoi fianchi erano posti due comodini. Sulla parete di destra
c’era un lungo comò che veniva sovrastato da uno specchio molto grande, mentre
sulla parete sinistra si trovava una porta scorrevole che conduceva ad un
piccolo bagno. I muri erano spogli e non v’era traccia di finestre o altro.
Mi avvicinai al letto e
notai che ai suoi piedi erano piegati dei vestiti ed una tuta con un
bigliettino lasciato li: per la tua notte
e per il tuo incontro di domani. Inarcai un attimo le sopracciglia ma non
mi feci troppe domande sul “come” e sul “perché” di quelle cose; non riuscivo a
farmele in quel momento. Così mi diressi in bagno, mi feci una doccia fresca
che mi rilassò, mi misi la tuta e andai a dormire. Strano ma vero, la notte
trascorse tranquilla e soprattutto senza incubi.
L’indomani mi svegliai
di buon mattino e mi preparai in fretta per l’incontro al quale avrei dovuto
prender parte. Presi i vestiti che mi erano stati preparati e li indossai: erano
un jeans blu scuro e una t-shirt bianca senza maniche con un cappuccio. Una
volta indossato il tutto, presi le chiavi che mi erano state date, imparai a
memoria l’indirizzo che era sul biglietto e lasciai quelle stanze. Salii la
scalinata, aprii la porta e vidi dinanzi a me l’enorme tedesco che mi fissava.
«Buon giorno!» dissi un po’ intimorito da tutta quella possanza «vieni, ti
mostro la strada per uscire» rispose con un tono di voce abbastanza sbrigativo.
Percorremmo un paio di corridoi, un grosso salone ed infine giunsi nei pressi
di un enorme portone di legno intarsiato. «Mamma mia, ma questa casa è enorme!»
dissi con molta enfasi quando ne notai le vere fattezze. Ai lati della stanza c’erano
due grandi porte che conducevano ad altrettante sale e sul fondo si trovavano
due gigantesche scalinate che formavano un semicerchio dinanzi al portone
principale. Il tedesco aprì e io feci per uscire ma mi fermò poggiandomi una
mano sulla spalla: non sembrava stesse usando molta forza ma sentivo di non
poter sfuggire a quella morsa; aveva una mano molto possente e molta forza
nelle dita. «Segui il viale, oltrepassa il cancello e prendi la macchina che
troverai parcheggiata li davanti. Non fare domande e non cercare risposte. Fa
solo quello che ti è stato chiesto». Capii cosa intendesse ed in silenzio
annuii. «Bravo ragazzo!» disse lui dandomi un piccolo colpetto dietro la spalla
dove sentii tutto il peso della sua forza.
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