lunedì 29 luglio 2013

QUANDO TUTTO EBBE INIZIO - Capitolo III - di Matteo Palmerini


Alcuni secondi dopo la luce tornò ed io, ancora seduto sulla sedia, ero slegato e le corde tagliate erano ai miei piedi. Alzai lo sguardo e vidi di nuovo la mia persecuzione.
Impaurito feci un balzo indietro e mi misi in piedi. In quel momento vidi cosa realmente era successo: il “come” non lo sapevo, il “quando” non riuscivo a capirlo ma sul pavimento di casa mia giacevano distesi due uomini incappucciati con le rispettive gole tagliate e il sangue che vagava tra una mattonella e l’altra.
Mi ghiacciai, alzai lentamente lo sguardo verso il possibile autore di quel massacro e lo fissai dritto negli occhi «che cosa hai fatto? Sei stato tu a fare questo massacro in casa mia?».
Non arrivò subito una risposta ma, scrutandomi prima e sorridendo poi, il mio peggiore incubo decise di rispondere «come puoi vedere non ti è più possibile restare in casa tua altrimenti la scientifica si accorgerà di cosa hai fatto!»  non capivo cosa volesse dire ma quando finì di parlare abbassò lo sguardo sulla mia mano ed io lo seguii col mio. Iniziarono a venirmi le vertigini, quasi non sembrava reale: avevo in mano il coltello della mia cucina che ancora gocciolava di sangue.
Le gambe tremavano, mi stavano per uscire le lacrime e mi sentivo molto accaldato ma in un momento di lucidità rialzai lo sguardo verso il mio interlocutore «Come è possibile?». Gli occhi si erano gonfiati ma lui non si scomponeva, anzi, fece spallucce e con un ghigno dipinto in volto rispose «semplice, sei un assassino. E’ giunto il momento che tu ti veda per quello che sei veramente». Vacillai non riuscendo a capire come tutto ciò fu possibile: in primis non ero un assassino ed in secundis io non avrei potuto fare quelle cose mentre ero legato e in così poco tempo.
«Vieni con me, ti porto al sicuro e nessuno saprà cosa è successo. Ho un paio di uomini qui intorno che verranno a ripulire la casa prima che arrivi la polizia» mi porse la mano e mi sorrise.
Avevo paura, davvero tanta paura, soprattutto non volevo finire in galera. Afferrai la sua mano e la strinsi come se stessi sugellando un accordo con lui, inspirai tirando su col naso «d’accordo, andiamocene. Ma devi garantirmi che questi due spariranno per sempre» dissi quest’ultima frase stringendo ancora di più la mano del mio interlocutore. Tanta era la tensione che non mi ero accorto del guanto che quell’uomo indossava in piena estate. Lui annuì e mi fece strada fuori dal mio appartamento, giù per le scale del mio palazzo e fuori in strada verso una macchina scura, una Volkswagen Golf GT. Entrai e mettendo la cintura seguii con lo sguardo l’uomo che nei giorni precedenti mi aveva perseguitato, ma che in quel momento mi stava aiutando. Prese in mano il cellulare e lo sentii dire qualcosa ma non riuscii a capire cosa. Poco dopo salì in macchinapotuto  e ci allontanammo. Non passò molto tempo ch’io chiusi gli occhi e scesi in un sonno profondo.
«Che ne dici di svegliarti?» una voce ovattata mi stava parlando ma il sonno era ancora pesante.
«Forza, alzati, sono quattro ore che dormi» continuò divenendo sempre più nitida.
«Ma che ore sono?» dissi alzando la testa.
«E’ l’una e trenta di notte» rispose ancora quella voce che non riuscivo ad identificare a causa del buio.
«Dove diavolo sono?» chiesi ancora una volta mentre mi sedevo. Non ricevetti risposta ma si accese la luce di una abatjour che mi mostrò parte del luogo.
Ero disteso su un divano di pelle che si trovava al centro di una stanza di legno, sotto il divano c’era un tappeto molto grande che sicuramente era stato acquistato da qualche venditore persiano, alle pareti erano appese le teste di un orso, un grosso cervo e un lupo e alla mia destra, nel muro, era incastonato un enorme camino che chiaramente era spento in quel momento. C’erano delle piccole finestrelle nelle parti alte delle pareti e una grande scalinata che dalle mie spalle saliva e si perdeva nel buio.
«Benvenuto nella mia umile dimora» disse l’uomo allontanandosi in quel momento dalla abatjour. Lentamente portai la mano dietro la nuca e mi toccai il bozzo formatosi a causa di quel brutto colpo subìto davanti il portone di casa mia.
Era strano, mi ero svegliato con quel senso di angoscia che generalmente segue una tua azione cattiva che hai omesso ad altri: il senso di colpa. Eppure mi sentivo a mio agio e tranquillo quando quella persona era vicina a me: il suo corpo, il suo sguardo ma soprattutto i suoi occhi, emanavano un’aura di calma e relax che lo facevano apparire come un amico fedele che avrebbe dato la vita per te.
Mi sedetti per bene, alzai lo sguardo verso di lui e feci quella domanda a cui non ebbi risposta tempo addietro «ma tu, chi sei? E perché mi hai aiutato?».
Prese una bottiglia di vino senza etichetta e se ne versò un poco in un calice, quindi si avvicinò al divano e si sedette affianco a me «come chi sono? Sono il tuo benefattore. Quello che ha impedito che tu finissi dietro le sbarre!» disse con tono ironico e poi bevve un sorso di quel vino che sembrava più un mosto liquoroso. Era di un rosso molto acceso e il liquido era molto denso. «E di questo te ne sono grato. Ma chi sei? Come ti chiami? Da dove vieni?» ancora una volta porsi una serie di domande a catena, soprattutto ero curioso di sapere la risposta dell’ultima. Iniziavo solo ora ad accorgermi veramente di quanto fosse chiara la sua pelle nonostante fossimo in piena estate, quindi volevo sapere se era albino o provenisse da qualche paese nordico.
Il colore della pelle, però, non collimava con i tratti del volto che lo facevano apparire come un uomo mediterraneo.
Si alzò col calice in mano e scosse la testa «a tempo debito tutte le risposte arriveranno. Ora…» stava per dire qualcosa ma venne interrotto dall’arrivo di un uomo che percorse la scalinata e ci raggiunse in sala «Signore, come avevate ordinato: tutto sistemato». Era un soggetto alto e muscoloso, aveva la pelle e i capelli molto chiari e, se avessi dovuto rispondere ad una domanda sulla sua provenienza mi sarei buttato ciecamente su una risposta sola: tedesco. Nonostante ciò, la cosa che più risaltava all’occhio erano le sue braccia: aveva dei bicipiti enormi e non scherzo se affermo che erano grandi quanto il mio cranio. Così il padrone di casa annuì e con un gesto della mano lo congedò. L’omone tedesco allora chinò il capo e poi lasciò la stanza.
«Dicevo…» riprese il mio interlocutore.
«Chi è quell’uomo?» lo interruppi velocemente con questa domanda.
«E’ uno degli uomini che lavorano per me e proteggono la mia casa. Sai, quando girano molti soldi per le tue tasche, c’è molta gente che te li vuole portare via e così hai bisogno di qualcuno che ti protegga» mi dava le spalle e teneva lo sguardo fisso sulla testa di orso che aveva appesa in quel salone.
«Dicevo» continuò ancora una volta «ora che sei qui, che ti ho salvato dal baratro in cui saresti finito, veniamo a noi, a ciò che ora tu devi fare per me» nel dire le ultime parole si volse e mi guardò dritto negli occhi. «Fare? Fare per te?» chiesi con tono molto preoccupato «io dovrei fare qualcosa per te?» continuai ancora a fare domande non riuscendo a trattenere la grossa preoccupazione. «Ragazzo, la vita è un Do ut Des, io dò affinché tu dia. Ed avendo io ampiamente dato, adesso tocca a te dare qualcosa» la risposta mi suonava molto minatoria ma il tono di voce era molto tranquillo e mi metteva a mio agio, così non potei fare altro che chiedere «quindi cosa dovrei fare per te?». L’uomo si avvicinò, prese una sedia, la pose col dorso innanzi a me e vi si sedette appoggiando gli avambracci sullo schienale «Domani mattina dovrai andare in questo stabilimento balneare» mentre parlava mi stava mostrando la foto di uno stabilimento della città «e incontrare un uomo che si presenterà a te come “la guardia”» fece una piccola pausa spostando lo sguardo da me alla foto «quest’uomo ti consegnerà una busta chiusa ermeticamente che tu dovrai tenere con te fino a domani sera». Inarcai il sopracciglio e chiesi «perché fino a domani sera?» - «perché solo allora io e te ci incontreremo nuovamente». Mi diede un mazzo di chiavi e un bigliettino sul quale era scritto un indirizzo «appena avrai la lettera va a questo indirizzo e restaci fino a sera e tieni a mente una cosa ragazzo mio: non puoi farti vedere in giro». Non capii cosa volesse intendere e socchiusi gli occhi «che vuoi dire? Perché non posso farmi vedere in giro adesso?» - «Beh, dopo quello che è accaduto ieri in casa tua è meglio se sparisci per un po’ dalla circolazione, non trovi?» capii in quel momento cosa volesse intendere e mi lasciai andare un momento «Ho capito. Va bene, farò ciò che mi hai chiesto. In fin dei conti non mi sembra un lavoro difficile, a parte il non potermi far vedere in giro». L’uomo si alzò dalla sedia sorridendo, la ripose dov’era e si avvicinò a me poggiandomi una mano sulla spalla «sono sicuro che ce la farai». Detto ciò si allontanò avviandosi verso la scalinata «e dove starò questa notte?»  chiesi un po’ preoccupato «resta pure qui, sarai al sicuro». Con queste parole l’uomo lasciò la stanza e dopo il rumore dei suoi passi si sentì solo quello di una porta chiusa lentamente.
Ci si chiederà: era quello il momento buono per scappare? In effetti, se avessi voluto, quello sarebbe stato un ottimo momento ma qualcosa mi faceva sentire a mio agio in quella stanza, qualcosa aleggiava nell’aria e mi rendeva calmo, non volevo andare via, anzi ero molto intenzionato a portare a termine quel compito affidatomi per il giorno successivo.
Mi alzai dal divano perché volevo vedere meglio la stanza con la luce del lampadario e non con quella della abatjour; così la accesi. Ora, ai miei occhi si presentava una stanza ancor più grande di quella che riuscivo a vedere prima e la cosa che mi colpì più di tutte era una parete che precedentemente non scorsi a causa della poca luce. Su quel muro erano appese una quantità incredibile di armi da fuoco e armi bianche. Era rivestita da un vetro molto spesso che le proteggeva. Non mi avvicinai più di tanto ma le osservai con cura notando quanto fossero ben tenute e pulite, soprattutto le armi bianche che luccicavano al riflesso della luce.
Poco dopo scostai lo sguardo e cercai altro nella stanza ma oltre a notare nuovamente che fosse più grande di quella che credevo vidi solo una porta posta sotto la scalinata. Mi avvicinai e la aprii lentamente, era tutto buio ma si scorgeva un piccolo corridoio che conduceva ad un'altra soglia. Coprii quel paio di metri, la raggiunsi e la varcai. Quando accesi la luce, una stanza da letto si mostrò ai miei occhi: un letto matrimoniale si trovava con la testa contro la parete che si profilava dinanzi a me, ai suoi fianchi erano posti due comodini. Sulla parete di destra c’era un lungo comò che veniva sovrastato da uno specchio molto grande, mentre sulla parete sinistra si trovava una porta scorrevole che conduceva ad un piccolo bagno. I muri erano spogli e non v’era traccia di finestre o altro.
Mi avvicinai al letto e notai che ai suoi piedi erano piegati dei vestiti ed una tuta con un bigliettino lasciato li: per la tua notte e per il tuo incontro di domani. Inarcai un attimo le sopracciglia ma non mi feci troppe domande sul “come” e sul “perché” di quelle cose; non riuscivo a farmele in quel momento. Così mi diressi in bagno, mi feci una doccia fresca che mi rilassò, mi misi la tuta e andai a dormire. Strano ma vero, la notte trascorse tranquilla e soprattutto senza incubi.
L’indomani mi svegliai di buon mattino e mi preparai in fretta per l’incontro al quale avrei dovuto prender parte. Presi i vestiti che mi erano stati preparati e li indossai: erano un jeans blu scuro e una t-shirt bianca senza maniche con un cappuccio. Una volta indossato il tutto, presi le chiavi che mi erano state date, imparai a memoria l’indirizzo che era sul biglietto e lasciai quelle stanze. Salii la scalinata, aprii la porta e vidi dinanzi a me l’enorme tedesco che mi fissava. «Buon giorno!» dissi un po’ intimorito da tutta quella possanza «vieni, ti mostro la strada per uscire» rispose con un tono di voce abbastanza sbrigativo. Percorremmo un paio di corridoi, un grosso salone ed infine giunsi nei pressi di un enorme portone di legno intarsiato. «Mamma mia, ma questa casa è enorme!» dissi con molta enfasi quando ne notai le vere fattezze. Ai lati della stanza c’erano due grandi porte che conducevano ad altrettante sale e sul fondo si trovavano due gigantesche scalinate che formavano un semicerchio dinanzi al portone principale. Il tedesco aprì e io feci per uscire ma mi fermò poggiandomi una mano sulla spalla: non sembrava stesse usando molta forza ma sentivo di non poter sfuggire a quella morsa; aveva una mano molto possente e molta forza nelle dita. «Segui il viale, oltrepassa il cancello e prendi la macchina che troverai parcheggiata li davanti. Non fare domande e non cercare risposte. Fa solo quello che ti è stato chiesto». Capii cosa intendesse ed in silenzio annuii. «Bravo ragazzo!» disse lui dandomi un piccolo colpetto dietro la spalla dove sentii tutto il peso della sua forza.

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